Pochi sanno che Torino ha avuto un ruolo fondamentale
nella storia delle arti performative, non solo a livello italiano ma mondiale.
Non è eccesso di sciovinismo sabaudo, è l’obiettività di fatti citati nei libri
di storia dell’arte.
Il Teatro della Performance, la mostra “storica” che inaugura
la nuova stagione espositiva della Gam e che è curata dal neodirettore Danilo
Eccher, ripercorre il legame della città con la forma d’arte nata alla fine
degli anni ’50. Lo fa attraverso i lavori di Shiraga,
Nitsch,
Pistoletto,
Gilbert & George,
Marina Abramovic,
Paul McCarthy
e
John Bock.
Molti di questi artisti hanno legato il loro nome a
Torino: la prima performance di Gilbert & George si è tenuta nel 1971 proprio alla
Gam; la prima italiana dell’
Orgien Mysterien Theater di Nitsch è stata qui nel ‘73; la
prima mostra di Shiraga fuori dal Giappone si è tenuta nel capoluogo piemontese; mentre Marina Abramovic, in
Teatro della Performance, presenta per la prima volta tre
suoi lavori storici, ridotti al solo elemento sonoro.
La mostra, però, non celebra solo il ruolo di Torino nella
diffusione della performance, ma crea un percorso che parte dalle sue origini
per spiegare una modalità espressiva che in molti ancora vedono con l’ironia
dei fratelli
Coen che,
nel
Grande Lebowski, ritraggono il personaggio di un’artista pazzoide che dipinge le sue
opere volteggiando nuda sulla tela. Una rivisitazione sardonica dell’
action
painting di
Pollock. Artista, quest’ultimo, che
Kaprow considera come il liberatore del
gesto artistico e padre ideale della
performance art, ma che in molti faticano a
comprendere.
E sembra ancora una scena da parodia filmica l’immagine di
un artista sollevato da terra, che stende il colore su una superficie con i
piedi; invece è la tecnica usata da
Kazuo Shiraga per creare le opere in mostra
alla Gam.
L’ironia però non deve sminuire il significato
fondamentale che queste opere hanno nella trasformazione del corpo in strumento
espressivo. Un momento fondamentale nella storia dell’arte, che segna la
fusione fra artista e opera, vita e arte. Questa crasi diventa chiarissima in
Gilbert
& George, che
si definiscono “
sculture viventi” e che in mostra sono presenti con alcuni disegni della
serie
General Jungle e con un video su una delle loro performance come statue in carne e
ossa.
La centralità del rapporto fra arte e vita è palese anche
in
Hermann Nitsch.
Tra i fondatori dell’Azionismo viennese, l’artista austriaco, nel suo
Teatro
delle Orge e dei Misteri, si erge a offiaciatore dionisiaco di riti che prevedono inutili
spargimenti di sangue animale ed estasi collettive. A Torino Nitsch espone
quelli che chiama i “
relitti” di questi macabri rituali.
Liquidi e umori d’ogni genere sono anche i protagonisti
dei lavori di
Paul McCarthy che, fortunatamente, fa esplodere la sua violenza, spesso
a carattere sessuale, su manichini animali o antropomorfi inerti, ma
soprattutto inanimati. È, invece, sulla propria pelle che
Marina Abramovic sperimenta il confine del dolore e
della resistenza fisica.
Chiudono la mostra due lavori di
Michelangelo
Pistoletto e
l’installazione claustrofobica in cui
John Bock ha realizzato la performance che è
proiettata a parete.