La luce, medium vivificante, depositario di rivelazioni. Consente l’apparizione di sagome nel buio, materializza con incanto gli edifici dormienti, circondati dalla tenebra. Un’oscurità elargita dai neri e dai violacei del cielo, e aleggiante nelle strade deserte di silente periferia, fino a un orizzonte che non è un confine, bensì una breccia aperta verso l’indefinito.
I paesaggi nebulosi di
Domenico David (Stalettì, Catanzaro, 1953; vive a Milano) sono empaticamente riconoscibili perché anonimi e, dunque, di valenza universale. Riportano a visioni oniriche, ovattate. A una condizione di riflessione e quiete, tutt’altro che minacciosa o foriera di insidie. Il buio è considerato una metafora del rallentamento del pensiero, inteso quale accadimento conciliante, nient’affatto ostico, che favorisce e nutre successive intuizioni, percorsi della mente ispirata. L’errare in territori sconosciuti, ricchi di alchemiche potenzialità, che possono diventare occasioni da cogliere e piccoli scrigni emotivi da dischiudere lentamente, senza aspettative o costrizioni.
Pennellate energiche e veloci, bagliori carichi di giallo vivido, scie di colore come sentieri guizzanti, file di bianche bocce baluginanti in cima a lampioni, profili d’insegne ancora accese, geometrie lattescenti che s’innalzano come segnali di fumo: le luminosità di David sono artificiali, prodotte dalla tecnologia. A basso voltaggio. Sufficienti a rischiarare, ma non prepotenti, totalizzanti.
Forse i più lo ricordano per i suoi interventi invasivi, in qualità di ironico scultore e realizzatore di monumentali installazioni collocate in spazi industriali o in location a cielo aperto. Eppure
Giordano Montorsi (Ventoso di Scandiano, Reggio Emilia, 1951; vive a Macigno, Reggio Emilia e Venezia) è altresì un eccellente pittore, e proprio a quest’ultima sua attività è dedicata la mostra torinese. L’istrionico artista si può collocare fra i contemporanei facenti parte della “
generazione di mezzo”, nati tra il ’45 e il ’55 e capaci d’interagire con le più alte forme di rinnovamento intellettuale, pur mantenendo una certa coerenza con quanto acquisito nel periodo formativo.
La pittura di Montorsi è in prevalenza di matrice aniconica e si avvale di numerose tecniche. Ora le sue carte svelano con diluita inquietudine, tra sfumature e semioscurità, enigmatiche figure umane, occhi semichiusi e bestie ibride; ora gli astratti mostrano una matericità più aggressiva, accesa nelle cromie, forte e rigorosa nel segno impresso sulla tela (
Mi hai rubato l’anima, 2008).
Presenti da sempre, fra i temi ricorrenti, la libertà, il perenne conflitto tra vita e morte, il senso tragico seppur seducente della precarietà, le condizioni intime o socialmente dilaganti di sofferenza e dolore, le suggestioni ancestrali, ipnotiche, derivanti dalle culture extra-europee. Le opere di maggior impatto emozionale profondono echi di simbolismi inquietanti e di velati esorcismi rivolti alla distruzione e alla guerra (
Per la tua piccola morte, 2009), al nulla dilagante oltre la fosca cortina della cecità umana.