Il titolo della personale di
Julia Mastrogiacomo,
The space between, esplicita il valore di passaggio che lo spazio porta in sé. All’uomo è dato concepirlo come un interstizio fra le cose che esistono, oppure come il luogo dell’infinito, laico, spirituale o religioso. È da sempre uno dei temi portanti della creatività: fonda il senso del fare architettura, costituisce il letto su cui le onde sonore si sciolgono in note ed è componente essenziale delle arti visive. Soggetto della pittura con il nome di prospettiva, elemento complementare della materia che compone la scultura, strumento necessario d’installazioni e video.
Julia Mastrogiacomo si confronta con le sale bianche della galleria Tonin provando a parlare di spazio. Lo fa attraverso inchiostri e tecniche miste, un’installazione, una scultura e un video. Il concetto dello “spazio tra” è dunque proposto come collante per leggere l’assemblaggio delle diverse tecniche esposte e affrontare la serie di domande da esse sprigionate.
Il respiro più ampio, quell’esattezza di forma e significato che rendono “bella” un’opera, si trova più nelle carte che altrove. Rispetto alla forte dicotomia di delicatezza e potenza che i piccoli fogli appena scarabocchiati o le grandi carte di macchie nere su vasti campi bianchi sollevano, l’installazione – una corda che attraversa lo spazio della galleria da un muro all’altro – è troppo letterale. Così, anche le piccole sculture di spine, che in quella loro rappresentazione testuale non aggiungono nulla alla poeticità e verità di una ricerca spirituale sentita e dolorosa.
Il video è più interessante: un’unica inquadratura delle mani da un punto di vista centrale (lo spettatore vi si trova in mezzo, come abbracciato). Lo spazio è chiuso da uno sfondo bianco, un tessuto in stoffa che per qualche minuto costituisce il terreno di un viaggio in uno spazio dall’entità ambigua e viva. Tuttavia, la resa dell’immagine risulta ancora piuttosto retorica (soprattutto nei movimenti) rispetto alla densità della presenza intellettuale dei segni pittorici.
Le piccole e le grandi carte sono percorse da tratti neri per lo più astratti (tale sembra essere il senso delle figurine che fanno capolino qui e là), sporcati da macchie colorate materiche. Se è vero che questo genere di scrittura può evocare l’informale segnico o la scrittura automatica surrealista, è altrettanto interessante capire quanta conoscenza dell’arte orientale pervada la mano dell’artista.
Che sia una concentrazione meditativa a muovere il gesto creativo o un tormento esistenziale alla
Henri Michaux, nella sua inconciliabile separazione fra testa e corpo, mentale e fisico.