Nei tappeti di
Piero Gilardi (Torino, 1942) l’arte non è più la rappresentazione della natura. È artificio, uno spessore che diventa un riflesso espressamente condizionato e sotteso all’immaginario di natura. Le percezioni fisiche di chi si trova a osservare i primi e più noti lavori dell’artista diventano una sorta di esperienze puntiformi. Stacchi che si succedono lungo un movimento di déjà-vu, più lunghi, sedimentati nel tempo e assomiglianti a inferenze inseparabili. Ogni zolla, infatti, separatamente, contribuisce alla riproduzione di un nuovo, originario, ordine segmentato. Un cosmo-diorama separato come una folla di isole. L’esperienza della natura in Gilardi non è nient’altro che
empeiria momentanea, realtà realizzata e svelata, perché vendibile a metro lineare. Un’apparenza estetica sulla natura che non cede agli spessori della speculazione e che non presuppone null’altro di identico né di sovrapponibile a se stessa. Nessuna traccia che la preceda, la predestini e la ceselli all’interno del ciclo della biologia molecolare.
L’arte di natura rimane qui sempiterna e in bilico sulla tradizione mercificante del movimento Pop. La condizione dell’arte stessa, fra le risa grasse dei colori squillanti,
fiorisce a ogni costo. In questa serie, la rappresentazione si estende come una protesi dell’esistenza al di là dei condizionamenti di spazio e tempo.
La natura si riduce allora a essere un ridanciano richiamo d’obbligo, condannata alla (ver)gogna della tridimensionalità e poi ripudiata senza pudori a un angolo di edenica verosimiglianza. Nonostante i richiami alle proporzioni ludiche di
Oldenburg, entrambe queste caratteristiche, ricorsive e connotanti la composizione, si trovano esplicitamente citate all’interno degli sgargianti dipinti-scultura di polistirolo espanso. Vergogna e falsità, dunque, fanno sì che l’universo torni a esistere al di fuori della presenza certa dell’uomo, anche se a causa della sua stessa invadente potenza creatrice.
Così, in
Mais ad esempio, il mondo torna ad apparire morbido, a farsi autunno, stagione finzionale, senza peccato e senza progenitori visibili, svelandosi come un gioco che si appropria della propria stessa fine, tra rastrelli e pannocchie. In
Granoturco caduto, invece, la geometria abbandona le forme
non-sense fatte di giocosa leggerezza e casualità prestabilita. Ogni composizione, ogni still life attorno a quest’ultimo lavoro diventa, a catena, un sistema che si differenzia dal proprio concomitante.
Tanto i tableau appesi alle pareti quanto quelli sdraiati a terra rilasciano percezioni che permangono, stantie e porose. Nell’aria e negli occhi attorno, diventano così distinguibili, a partire dagli spunti di realizzazione e composizione delle opere, le idee. Sovrastate da quella idea di natura che non converge più nell’oggetto-tappeto, ma che diventa rappresentazione di un’impressione. Un’impressione in scala reale di verzure, rive sassose, sottoboschi, scorci marini e orti d’angurie.