Ralph Gibson (Los Angeles, 1939; vive a New York) e
Jill Mathis (San Antonio, 1974; vive a Verbania) attraversano il concetto di etimologia, di sezionamento della visione usata come viatico. L’etimologia chatwiniana, usata nei loro scatti in senso ampio e traslato, fuori del mero campo linguistico, diventa sinonimo di origine ultima e profonda, non solo delle parole ma della realtà.
I due, come uomo e donna, come maestro e allieva, come due artisti, esplorano Torino e quella zona, iconicamente inesplorata, che si trova fra il biellese e il vercellese. Una zona denominata Baraggia, territorio in senso lato
deserto, seppur ricco di dettagli e d’un ritmo dimenticato, scandito dalla vita contadina.
All’Arca di Vercelli, un’ottantina di scatti rendono questa doppia personale un vero e proprio evento da meditazione, tracciando un percorso unito e, allo stesso tempo, bifronte. La mostra
Dialogues. Etymology of an emotion vuole infatti restituire al pubblico uno sguardo unico; un modo d’immortalare il Piemonte amalgamato ed estraneo, seppur radicalmente tratto dallo stesso punto di vista. Ogni immagine porta con sé due lati del registro scopico, parti eguali e contrarie della ricostruzione di due itinerari. Due strade: fra il concreto e l’immaginifico. Tra gli spazi della Baraggia e una Torino fatta di frammenti minori e dettagli scontornatissimi.
Le foto formano due atmosfere che dialogano fra loro e rimandano, analogicamente, a un’identità di fondo, che a mano a mano disperde l’appartenenza piemontese. L’incontro dei due itinerari avviene nella dimensione in cui Gibson e Mathis cercano di ricostruire un’etimologia minima che lega le cose ai concetti, l’archetipo alle sue declinazioni visive e semantiche.
Da un lato, Ralph Gibson (fotografo americano di reportage, a suo agio con il bianco e nero), che intraprende un viaggio ottico dentro una Torino che non è soltanto Torino. Il reporter pensieroso emerge lasciando una sorta di
Minima Moralia, un lungo appunto che funge da guida per una lettura complessiva di una città e dei suoi accorgimenti, partendo da piccole parti di oggetti (bottiglie, finestre, statue), fino a dilatarne suggestivamente la rappresentazione secondo un procedimento induttivo, che si spinge dal particolare all’universale.
A guardare chi guarda, poi, c’è Jill Mathis, che fissa le atmosfere di luoghi dispersivi, senza forme, compiendo un percorso a ritroso, partendo cioè dal primo piano al campo lungo. Secondo il suo metodo d’indagine, i concetti restringono il messaggio, in un gioco di astrazioni e alienazioni della natura. I colori e i paesaggi diventano l’elemento minimo, seppur ampio e mai finito, che rimanda a una propria realtà generica e non scientifica (vedi l’acqua, le piante, le radure, le sterpaglie, le geometrie).
Elementi minori, che mettono però in risalto, ancora una volta, itinerari scelti e assieme impazziti, induttivi e deduttivi, che si saldano in una visione ultima e rinnovata della realtà territoriale.