I grumi, gli scatti, le meraviglianti, erratiche velocissime concrezioni di colore. Petali e foglie, nubi e nudi, il beccaccino colto nella sua discesa precipite, la povera lepre, la granseola, la tinca, gli occhi seducenti e perduti dei suoi ragazzi.
Ci sono proprio tutti, alla mostra di Torino, gli elementi che hanno reso Filippo de Pisis (Ferrara 1896, Milano 1956) uno dei più grandi pittori (e poeti) del nostro Novecento.
Ci sono tutti e viene da raccontarli così, con quell’impossibilità di soffermarsi che è la stessa impossibilità di fissare le opere di De Pisis. Si viene trascinati, infatti, dalla velocità e dalla matericità del suo segno, da un’opera all’altra, quasi fossero un’unica opera; un’unica, interminabile ricerca del tempo perduto . Il tempo, sembra essere così una componente essenziale di queste opere: un ritmo ansioso, quasi una corsa, un folle tragitto su ogni tela e su ogni foglio (sono presenti accanto ai dipinti anche 40 disegni). Non è mai, però, leggerezza,
Gli spazi in cui De Pisis aggruma le sue nature morte, le case e i paesaggi, i fiori e i nudi, finisce col sembrarci una sorta di luogo consacrato più al “memento” che non al sapore e alla gioia dell’abbraccio e del bacio. Qui fui felice; qui amai; qui goloso addentai mele e pere; ma, ora, guardate cosa rimane della mie golosità e dei miei profumi: un ammasso di lacerti, delicati sì, ma spettrali. La struggente bellezza delle cose, dei corpi, viene avvertita solo quasi dall’epidermide e dalla scorza, come fosse il loro solo colore, la loro sola luce, il loro solo profumo. Questo perché il “vedere” di De Pisis coincide col toccare; e perché, in quel toccare, la creta di cui tutto sembra fatto risulta essere la fragilità; e, nella fragilità, il nulla. La mostra riassume, attraverso un itinerario disposto cronologicamente all’interno di 8 sezioni tematiche, quasi tutto il percorso creativo del pittore ferrarese. Si apre con la Natura morta occidentale del 1919, e quei veri e propri “collage” con cui il giovane De Pisis fa lo sgambetto alla pittura metafisica, presentando poi opere del periodo parigino, come la bellissima Rue de volontaires (1925) e degli anni successivi al 1939, in cui si stabilisce a
Fino all’ultima, lacrimante Natura morta con la penna: dipinta a Villa Fiorita e datata 1953. Si giunge, con opere come questa, all’estrema simultaneità tra bellezza e cenere, tra vita e morte. In quelle ombre, che sono quanto di più lontano possa esserci dalle ombre-colore della lezione impressionista, è lo stampo del tempo, sia pur quello riducibile allo spalancarsi di un gladiolo o all’incresparsi di un’onda, ad imprimersi come un marchio sulla crosta delle cose.
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