Prendete
Albrecht Dürer, illustrazioni dantesche e bibliche, opere di
Max Ernst e
Goya, elementi decorativi liberty, motivi popolari sudamericani, disegni di tatuaggi, interventi minimi di ricamo; unite il tutto nello shaker, aggiungete solo un goccio di grottesco, tre foglie d’ironia e una d’oro. Ora mescolate. Cosa ne esce? Semplice, le opere di
Kent Henricksen (New Haven, 1974; vive a New York).
Absence of Myth raccoglie una ventina di nuovi lavori del giovane artista americano. Sono i suoi classici ricami su tela, ai quali si aggiungono alcune opere su tela in foglia d’oro e cinque sculture in ceramica. Il tema centrale è la violenza, che nei lavori di Henricksen assume i tratti di una forza ancestrale. È una componente costante, che attraversa tanto la storia dell’uomo quanto quella dell’arte.
Henricksen serigrafa sulle tele immagini provenienti dalle fonti più diverse, poi aggiunge i ricami. I suoi personaggi preferiti sono figure che nascondono la propria identità dietro cappucci o “burqa”. In un’epoca in cui ciò ch’è nascosto evoca paure senza nome, la mente prova subito a dare un volto a questi “fantasmi”. Saranno nostalgici del Ku Klux Klan o terroristi? Saranno rapinatori di banche o agenti delle forze speciali?
Il dubbio, come il volto di queste figure, non viene mai svelato. La composizione mantiene tensione narrativa e assume una vena ironica e grottesca, che nasce dalla trasfigurazione di eventi conosciuti. Così modificati, questi fatti si prestano a fantasiose riletture. Prima dell’intervento di Henricksen,
Perpetual Pleasures vedeva San Gennaro inginocchiato davanti al teschio, ma una volta coperto dalla tunica il santo potrebbe essere chiunque, anche un satanista. Lo stesso accade in
To have and to hold: l’immagine della rivoluzione americana in cui tre soldati scortano un prigioniero potrebbe essere invece interpretata come il rapimento di un turista da parte di un gruppo di yemeniti. O ancora: la Sacra Famiglia ritratta durante la fuga in Egitto potrebbe esser vista, dopo il mascheramento di Giuseppe e Maria, come l’immagine di due rom che, dopo aver rapito un bambino, scappano a dorso di un asino.
La violenza, evocata nell’iconografia cattolica, storica e folklorica, è in realtà un modo per riflettere su identità e paura. Due concetti che, ai giorni nostri, vanno a braccetto, portando spesso all’intolleranza xenofoba. I volti coperti di Henricksen sembrano suggerire che le colpe vanno attribuite agli atti, e non ai tratti somatici.
In tutti i lavori però non manca la speranza che, raffigurata sotto forma di fili d’erba, spunta nei posti più impensabili: tra gambe che escono dalla terra o fra teschi e ossa. È una speranza di tradizione medievale, quella della
Totentanz, la danza dei morti spesso protagonista dei lavori dell’artista americano. A simboleggiare il ciclo della vita che ricomincia, augurandosi sia migliore di quella precedente.