Il teatro può essere il luogo della finzione aristotelica, quindi della mimesi e della catarsi, oppure può divenire il veicolo della conoscenza, dell’impegno etico e politico. Che si ami la tradizione classica o la versione epica di Bertolt Brecht, difficilmente lo spettatore riesce a illudersi di osservare la realtà quando sprofonda in una poltroncina della platea o della galleria. Nel più ovattato dei mondi possibili, in cui il rito si affianca all’austerità, la storia del teatro all’evoluzione della tecnica, amiamo assentarci dal quotidiano per poi tornare e sentirci migliori. Quando le luci vacillano e si ottiene il silenzio, quando si abbassano e si trattiene il respiro, si avverte che sono molti gli spiriti concentrati su un incipit orchestrato con precisione e maestosità.
Il teatro è un edificio complesso da progettare. Se ne osserviamo una sezione, comprendiamo che lo spazio dove si svolge la scena è una piccola percentuale di quello necessario al fine di poterne fruire correttamente.
Sophy Rickett (Londra, 1970), per la sua terza mostra da Peola, ha scelto di scandagliare le direttrici che consentono a tutto l’auditorium di poter oltrepassare il limite del boccascena, dopo aver percorso il proscenio e sovrastato la buca dell’orchestra, e così continuare l’accurata esplorazione del Teatro dell’Opera di Glyndebourne.
La fotografa londinese, abile a ricomporre orizzonti interrotti, si cimenta ora nell’impresa di rivelare le parti oscure di un progetto composito, dai macchinari del sottopalco alle funi che alimentano le quinte e i sipari, in un crescendo d’inquadrature che scoprono l’innalzarsi dei ballatoi e la presenza di rigorose geometrie create dalla linearità degli elementi alternati a fasci di luce.
Le immagini sono racchiuse in due video che vengono proposti accostati. L’atmosfera è resa solenne dalle note di una composizione lirica appositamente creata: incita lo spirito a oltrepassare i piani sfalsati che scorrono lentamente in un’ascensione di moti sopiti. Mentre osserviamo la discesa verso i macchinari del sottopalco o la salita all’apertura della cupola, abbiamo la sensazione che nulla nella creazione di un atto possa essere lasciato al caso. Ogni movimento, ogni fune che scorre o ingranaggio che si alterna risponde a un richiamo preciso, a una sequenza studiata di impulsi, alla mano invisibile della presenza umana; non un impersonale
deus ex machina, bensì l’essenza stessa della verità nascosta.
La rivelazione dei meccanismi alla base della scenotecnica, la potenza del codice luminoso, l’apparire stesso degli elementi non sono frutto dell’energia di coloro che osservano, ma di un demiurgo che raccoglie e fonde sinergicamente le risorse alla base del complesso sistema.
E poi si ritorna al vuoto, all’assenza, ai palchi deserti, in cui la presenza dell’uomo annulla il mistero. Ma in ogni anfratto e in ogni cunicolo sappiamo che aleggia uno spirito, un sospiro che richiama i versi dell’ultima opera rappresentata.