A 17 anni dal suo primo lavoro come
illustratore, presentato alla Pinacoteca Agnelli nel 1992,
Mimmo Paladino (Paduli, Benevento,
1948; vive a Paduli e Milano) torna a Torino con una serie di tavole dedicate a
La luna e i falò, il capolavoro di Cesare Pavese.
Sono disegni su carta, segnati dal
nero della china o dal colore degli acquerelli, che illustrano il libro chiave
di Pavese, l’ultimo prima del suo suicidio nell’estate del 1950, in una stanza
dell’Albergo Roma di Torino. Non lontano da quella via Biancamano dove, nella
sede dell’Einaudi, trascorse gran parte della sua carriera di scrittore,
traduttore e membro del comitato editoriale.
La luna e i falò, romanzo che
è diventato il testamento letterario pavesiano, è illustrato da Paladino nei
suoi punti fondamentali: il ritorno al paese natio, le colline delle Langhe, il
viaggio, l’America, la guerra e la Resistenza, la vita contadina, la
solitudine, gli amori perduti.
I disegni sono trenta, accolti –
oltre che nello spazio di In Arco – anche sulle pareti del Caffè Elena. Sempre
in piazza Vittorio Veneto, due numeri civici oltre la galleria, si trova
infatti lo storico ritrovo caro allo scrittore. E viene proprio da
immaginarselo, Pavese, coi suoi occhiali tondi, seduto, in barba a Sirchia, a
fumare in un angolo, osservando i lavori di Paladino. Chissà se gli
piacerebbero.
Giuseppe Culicchia giura di sì.
Il
giovane autore torinese, in uno dei tanti testi scritti apposta per la mostra
da personalità di spicco, scrive che Pavese li apprezzerebbe per il modo in cui
restituiscono “
la fatica e l’inquietudine di una solitudine disperata e
irrimediabile”.
Di certo l’immaginario pavesiano è
molto pittorico. Lo sono le immagini in cui descrive le colline langarole,
sinuose come il corpo di una donna, e la solitudine che sembra richiamare
l’ascetismo solitario di San Girolamo, raffigurato in capolavori dell’arte come
quelli di
Dürer,
Antonello da Messina e
van Eyck.
Lo stretto legame dello scrittore con
l’ambiente artistico torinese dell’epoca è anche raccontato nelle pagine finali
di
Tre donne sole: “
Il curioso era stata l’idea di affittare uno studio
da pittore, farci portare una poltrona, nient’altro, e morire così davanti alla
finestra che guardava Superga”, scrive Pavese. Una descrizione che
ricorda visivamente il
Ritratto di Silvana Cenni di
Felice
Casorati e, nell’ambientazione, l’atelier di una stretta
conoscente di Pavese, la pittrice
Carol Rama, che proprio
in una mansarda in via Napione ha da decenni il suo studio.
Vita, arte e letterature si fondevano
in Pavese. Forse ha ragione Culicchia: questi lavori gli sarebbero piaciuti.