I livelli di sensazione per chi osserva le opere di
Ezio Gribaudo (Torino, 1929) sono molteplici. Proprio come multiformi sono le variabili che la storia dell’arte ha posto, cercando di incasellare l’artista torinese, riducendolo a un
flâneur di senso estetico. Un ricercatore di stili in transito, attraverso l’informale, l’espressionismo astratto, per poi ricorrere ai suoi “discorsi” come media utili a restituire parole più assolute e simboliche. Parole nelle quali inspiegabili riflessi cromatici e impressioni di verità si sottraggono tanto al mondo della tela quanto a quello della totale resa scultorea. Seguendo una devastante marchiatura temporale.
Per chi si reca in visita a quest’ultima retrospettiva di Gribaudo, i livelli di sensazione davanti ai lavori esposti saranno di natura stratificata e non sempre riconducibili a una chiarezza espressiva capace d’illuminare tutti i periodi temporali contenuti all’interno di questo percorso. A volte il colore, componente d’importanza fondante nella serie di opere in mostra, diventa viatico di pensiero, di andatura, di immaginazione e, perché no, di mero raccordo, tradendo qualsiasi costituzionalità e linea di appartenenza.
Questa sorta di sintonia cromatica fra le diverse parti di dipinti, collage, sculture o bassorilievi si trasforma spesso in un’ombra latente che non lascia distinguere. Un’ombra fatta di rossi, di bianchi e di color ocra imprevisti che sono il segnale attivo di alcune “invenzioni” segniche.
Alle pareti di un lungo corridoio dell’Accademia Albertina, alcune decine di lavori, che vanno dai primi autoritratti ai più recenti
Plurimo, si spargono sull’occhio, sulla retina, formando delle aree sensibili che possono essere connesse direttamente ai diversi organi di senso. È curioso scoprire, mentre si cammina fra i lavori allestiti, come ogni livello, ogni campo sensoriale avrebbe un suo diverso modo di rinviare agli altri, indipendentemente dall’oggetto rappresentato e messo in comune.
Così, fra un colore (i verdi e i gialli in espansione di
Autoritratto, 1958), un tocco (uno qualsiasi dei bassorilievi dei
Flano), un rumore (basti pensare ai movimenti frastagliati e fruscianti dei ritmi dei
Teatro della Memoria) oppure un peso (riconducibile alla leggerezza scavata dei
Logogrifo), lo spettatore è facilmente in grado di stabilire una comunicazione esistenziale. Un sentimento che costituirebbe una sorta di velo emotivo. Un significato ben al di là delle sensazioni rappresentative che gli andamenti compositivi dei lavori originano.
Spetta dunque al pittore, al visualizzatore che si trova nella storia di Gribaudo far vedere ogni singolo passaggio artistico come appartenente a una sorta di unità originale dei sensi; avendo l’obbligo di conferire al proprio lavoro una resa visiva e una figurazione grafica già in partenza concepite per esprimere
multisensorialità. Attraverso l’alfabeto della sensibilità.
Come spiega Gribaudo: “
Attraverso l’inchiostro, l’incisione e la grafica, il supporto si deve trasformare in un paesaggio della realtà, una sorta di teatro della memoria, che trova un posto alla bellezza sotto forma di codici e immagini fatti e coniati dalle mani, come invenzioni nostalgiche della forma”.