La Biennale chierese di fiber art coinvolge ormai le aziende private del circondario, richiama artisti provenienti dai cinque continenti e gode di una rilevanza tale da essere ospitata nel rinomato Textilmuseum di San Gallo. Ciò che forse latita è un progetto curatoriale più netto; senza voler discutere la competenza di Silvana Nota, un certo ricambio non sarebbe svantaggioso, per ideare un percorso che renda più fruibile l’articolazione dei lavori. Questi sono esemplari unici che stimolano inevitabilmente un desiderio di tattilità. Un vero peccato, dunque, che ogni contatto con le opere sia vietato.
Il rapporto con la tradizione si traduce in una gamma di risposte che vanno dalla fedele citazione al sovvertimento clamoroso. Un dialogo che tuttavia non ha come unico interlocutore il tempo, ma pure lo spazio. Molti fiber artists provengono da piccole comunità e spesso si sono spostati verso i centri urbani, magari cambiando Stato. Un apolide del genere è Zaha Hadid, le cui simulazioni in 3D ricordano il leggiadro lavoro di Heidi Arnold-Trudel (Zurich, 1949. Vive a Stäfa), Squares (2002). Una leggerezza che ricorre in altre opere come Black Votive Axes or Improbable Acephalous Insects (2003) di Françoise Micoud (Lyon 1948. Vive a Paris) oppure La primavera (2001) di Patricia Black (Australia. Vive a Padova), che reinterpreta la tecnica giapponese dello shibori per creare un abito d’organza per corpi barocchi multicolori. Vari altri artisti riflettono sulle tradizioni e le mitologie popolari, come Lucia Gatti (Torino, 1973), che con la sua Fata dei boschi (2003) presenta una scultura indossabile la cui gonna è composta da ramoscelli di vite vergine e uva fragola. È allora il filo della memoria a svilupparsi con circonvoluzioni labirintiche, specie nel lavoro della lituana Inga Likšaitė (Kaunas, 1972), Muse-1 (2003), che intesse un ritratto sfuggente pur nella tessitura a macchina, che potrebbe cristallizzare il ricordo.
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