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Nella storia dell’immagine, il passaggio
dall’analogico al digitale instaura una rottura che nel suo principio è
equivalente all’arma atomica nella storia degli armenti o alla manipolazione
genetica in biologia”.
Con la sua visione catastrofista, Régis Debray riesce a delineare una seconda
cesura, dopo quella descritta da Benjamin nella ben nota tesi sulla
riproducibilità tecnica.
L’operato di
Glenn Brown (Hexham, 1966; vive a Londra)
pone inevitabilmente di fronte a un interrogativo essenziale: esiste realmente
un’opera originale? Probabilmente no. Esistono però innumerevoli “rimedi”,
azioni che si sono susseguite in ogni epoca attraverso le forme espressive
dell’arte e della comunicazione.
In tale contesto s’inserisce appieno la maestria
dell’inglese, il quale partorisce un’arte che non può che essere iper-mediata.
Le sue pennellate polimorfe trascinano l’osservatore nell’entropia, lasciandolo
avvolto in un turbinio inesplicabile di emozioni. Lo abbandonano in balia del fluire
degli immaginifici colori che sgorgano in un magma imperituro.
In ogni traccia lasciata sulla tela dal pennello vi è
racchiuso un mondo di memoria, che implica un’assidua interpretazione. Gli
aneliti di
Rembrandt,
Auerbach,
Baselitz,
El Greco,
Watteau,
Dalí, solo per
citarne alcuni, costituiscono la texture del quadro.
Ma si potrebbero trovare
altri riferimenti meno espliciti, come la pittura di
Francis Bacon.
Brown tramuta la matericità pittorica nella levigatezza
della resa fotografica. La riproduzione assume lo status di opera e incomincia
a vivere di vita propria. Se la fotografia analogica ha da sempre costituito
l’impronta indelebile di un trascorso, l’immagine digitale, perdendo il suo
valore di verità, non trova più corrispondenza nel reale. Nonostante tutto, le
utilizza entrambe come supporto, facendo del passato e del presente della
tecnica un continuum spazio-temporale.
L’opera si arricchisce rendendo etereo e trascendente
l’olio che si posa sulla tela. I paesaggi rievocano i miti biblici, tra cui
quello di Babele, e i canti della
Divina Commedia. Al contempo parlano del
progresso indiscriminato, della capacità dell’uomo di spingersi oltre i propri
limiti, delineando un futuro che si prospetta all’insegna delle manipolazioni
genetiche, della distruzione del pianeta.
Nei volti umani, scarnificati, si svelano però i
sentimenti; non soltanto la malinconia, ma anche la gioia. In
The Holy Virgin, un pagliaccio incarna le
maschere del teatro, il tipico riso e pianto. In
Sex, sullo sfondo di un ritratto
classico emerge un viso dagli occhi vitrei e spettrali. L’albero che si evince
in
Deep Throat si antropomorfizza in una testa umana, che rievoca al contempo la figura
mitologica di Medusa, attorniata da viscidi serpenti.
Dissacrante
The Great Masturbator, che pare indicare al fruitore i
suoi peccati e inganni nascosti, alla stregua di Cristo nell’
Ultima cena di
Leonardo da Vinci. Che annuncia: “
Uno di voi mi
tradirà”.
I colori gettati sulle sculture ritornano materia:
emblematici nel tavolo
The Sound of Music, ove divengono forma e note del lavorio artistico.
Sarebbe riduttivo considerare la creatività di Glenn Brown
attraverso un’estetica dello splatter. Poiché nell’onirico di quadri come
Jesus,
the Living Dead emerge il puro sentimento del sublime.