Siamo a tal punto immersi in un mondo in cui tutto appare ormai svelato che spesso abbiamo la sensazione agorafobica di essere esposti alla nuda verità di un’esistenza in cui il mistero non ha più spazi d’azione né senso. Le conquiste della scienza, lo sviluppo dei mass media e l’avvento di internet hanno dissolto le molteplici zone oscure dalle quali sono sorti miti e magie, dove hanno prosperato fedi e superstizioni. Gli snuff movie, la pornografia o le ultime incursioni bloggiste dentro realtà fino ad oggi impossibili da sondare sono alcuni fenomeni legati, insieme ai perfezionamenti dei mezzi di diagnostica medica, dei satelliti e delle telecamere spia, ad una nuova era dell’informazione nella quale la dematerializzazione dell’immagine non influisce più solo su un aspetto estetico, semiotico o percettivo. Un più profondo e insinuante aspetto psicologico rischia di far saltare il senso autentico del reale, come dimostra in parte la storia dell’ennesima strage americana compiuta da un individuo la cui mente è apparsa insidiata dalla realtà virtuale di videogiochi e film di culto. Questo nuovo senso del reale, o di iperreale, come sosteneva Jean Baudrillard, pare essere il prodotto della sovrapposizione di immagini provenienti dai mondi paralleli della percezione dematerializzata, confermando le intuizioni del pensiero psichedelico oggi confermato dall’aleatorietà della rete.
Il lavoro del quotato Jeff Burton (Anaheim, California, 1963), alla sua terza personale torinese da Noero, sembra intuire il peso di questo nuovo rapporto con il reale e decidere di operare un fuga in avanti, scegliendo la vita del set cinematografico come luogo nel quale ritrovare il senso di un “commercio” con il mondo che resta per noi un’esperienza sempre incompleta, inconclusa, essenzialmente finita.
Dal dialogo che Burton instaura tra soggetto e contesto, tra occhio e visione, tra reale e immaginario, tra campo e fuoricampo, si scatena il fascino conturbante di un’insignificanza a maglie larghe, dalla quale, con un prolungato tempo di osservazione, lo spettatore riesce a cogliere frammenti narrativi che non fanno più parte di un tutto, ma diventano allusioni infinitamente interpretabili. Lo sguardo è quello di un animale domestico un po’ schivo, pronto a gettare un’ultima occhiata obliqua prima di lasciare il luogo del set alle proprie spalle. Lì dove si forgiano i miti di Hollywood e dove “corpi” finiscono macinati negli ingranaggi dell’industria del porno più potente del mondo. Di questi “manichini” Burton registra scampoli di azioni, imbalsamando con l’abilità di un voyeur feticista, che non si accontenta mai dell’oggetto che gli mettono sotto il naso, i dettagli utili alla propria riformulazione della scena. Burton riscrive i set e le scene del cinema, percuotendone il discorso centenario, decostruendo le inquadrature e la loro pretesa di verità. Un lavoro che sarebbe piaciuto a Jacques Derrida e alle sue mille maniere di ridiscutere sempre ciascun centro e ogni origine: Burton lo fa fotografando di sbieco, impastando “oggetti” che sulla scena hanno un preciso ordine narrativo-veritativo (quello della fiction) per proporre le visioni di un modo di guardare che traccia il profilo di una realtà che s’illumina attraverso il proprio defilarsi. Coglie le energie del fuori campo, del dialogo mentale ed estetico che ha inizio non appena l’occhio smette di guardare dove il codice-cinema vuole che guardi e spazia sospeso a metà tra la scena ed il fuoriscena, tra l’oggetto della visione ed il suo contesto, rifiutando di fissarsi in immagini documentarie che subirebbero ancora il codice della visione oggetto-centrica.
Burton fotografa atmosfere, i suoi dettagli hanno la forza di evocazioni. Davanti alle sue immagini le nostre presunzioni di verità, il nostro essere spettatori di un mondo che conosciamo fino alla “nausea” perché si ripropone uguale a se stesso grazie agli schemi di un narrare che è infinita ripetizione dell’indifferente, decadono e veniamo accolti in una dimensione che la fotografia, “finita” ma mai conclusa, sa aprire con la fissazione di immagini che propongono una realtà intessuta di micronarrazioni aperte, intuizioni umbratili, supposizioni sfocate. Questo significa esistere: procedere per indizi, non semplicemente restare a guardare.
nicola davide angerame
mostra visitata il 12 aprile 2007
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