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23
ottobre 2009
fino al 5.XII.2009 Shirin Neshat / Shoja Azari Torino, Galleria Noire
torino
Libertà e dignità negate. Quelle di Neshat e Azari, coppia nella vita e nell’arte, sembrano visioni apocalittiche. Ma sono il frutto di chi ama così tanto la verità da mostrare che le dittature sono ovunque...
di Stefano Riba
La mostra di Shirin Neshat e Shoja
Azari alla Galleria Noire dovrebbe avere all’ingresso un
cartello d’avviso che reciti: “Se avete un alto livello di empatia verso la
situazione socio-politica globale, non varcate questa porta”.
Già, perché basta fare un passo oltre
la soglia dello spazio industriale di via Piossasco per trovarsi, ancor prima
delle scale che portano al primo piano, di fronte a una proiezione che
introduce il tema della mostra: la libertà individuale e collettiva e la
ribellione che nasce dalle negazioni, soprattutto per mano politica, di questi stessi
diritti.
Il video digitale di Shoja Azari (Shiraz,
1958; vive a New York) apre, nella riproduzione di un affresco persiano,
finestre multimediali che incorniciano i video degli scontri seguiti, nello
scorso giugno, alla vittoria-farsa di Ahmadinejad.
E questo è solo il preambolo. Al
primo piano si trovano due bellissime, ma pessimiste o forse catartiche,
proiezioni della coppia di artisti iraniani. È possibile che lascino addosso un
certo turbamento. Le soluzioni sono due: fare come gli struzzi, scavare un buco
nella sabbia per evitare di sporcarsi la coscienza con la conoscenza; oppure,
in un vortice di masochismo esistenziale e gnoseologico, salire i gradini. I
lavori sono Munis di Shirin Neshat (Qazvin, 1957; vive a New
York) e Odyssey di Azari. Marito e moglie che, paradossalmente, s’incontrano
per la prima volta in mostra proprio in quest’occasione.
Munis è una della
quattro storie di Women Without Men, la prima opera da regista con cui
Neshat ha vinto il Leone d’Argento al Festival del Cinema di Venezia
di quest’anno. Munis è il nome della protagonista del video, una ragazza che
assiste alla morte di un attivista politico e decide di riprendersi la propria
vita, tormentata dal fratello dispotico e conservatore, suicidandosi. Il video
racconta di libertà mancate, difficoltà d’espressione e capacità di morire
riappropriarsi, in un gesto estremo, di tutte le cose che le sono state negate.
Il lavoro di Shoja Azari, Odyssey, è stato
girato in un mattatoio abbandonato e racconta, con lunghi piani-sequenza, il
viaggio dell’uomo verso la sua distruzione. “Ci torturiamo tra noi,
riempiamo la terra di nostre vittime, ci avviamo verso l’annientamento più
totale”, dice l’artista, “Non riusciamo per caso a vedere il legame tra ciò
e il nostro desiderio di prevalere, la nostra sete di potere, di profitto?”.
I lavori in mostra partono da una
metafora sulla condizione umana e dalla situazione iraniana del ’53 e odierna,
per porre domande che si allargano al resto del mondo, Italia compresa.
Proprio sul parallelo fra l’Iran e il
nostro Paese, Neshat – nell’intervista a “La Repubblica” del 19 settembre
scorso – dice: “Noi abbiamo un presidente che va in televisione a dire che
c’è democrazia e che tutti sono liberi. Mi sembra che Berlusconi stia ripetendo
la stessa cosa. In entrambi i Paesi l’abitudine a mentire è piuttosto diffusa”.
Una mostra per chi pensa che la
verità sia un atto d’amore.
Azari alla Galleria Noire dovrebbe avere all’ingresso un
cartello d’avviso che reciti: “Se avete un alto livello di empatia verso la
situazione socio-politica globale, non varcate questa porta”.
Già, perché basta fare un passo oltre
la soglia dello spazio industriale di via Piossasco per trovarsi, ancor prima
delle scale che portano al primo piano, di fronte a una proiezione che
introduce il tema della mostra: la libertà individuale e collettiva e la
ribellione che nasce dalle negazioni, soprattutto per mano politica, di questi stessi
diritti.
Il video digitale di Shoja Azari (Shiraz,
1958; vive a New York) apre, nella riproduzione di un affresco persiano,
finestre multimediali che incorniciano i video degli scontri seguiti, nello
scorso giugno, alla vittoria-farsa di Ahmadinejad.
E questo è solo il preambolo. Al
primo piano si trovano due bellissime, ma pessimiste o forse catartiche,
proiezioni della coppia di artisti iraniani. È possibile che lascino addosso un
certo turbamento. Le soluzioni sono due: fare come gli struzzi, scavare un buco
nella sabbia per evitare di sporcarsi la coscienza con la conoscenza; oppure,
in un vortice di masochismo esistenziale e gnoseologico, salire i gradini. I
lavori sono Munis di Shirin Neshat (Qazvin, 1957; vive a New
York) e Odyssey di Azari. Marito e moglie che, paradossalmente, s’incontrano
per la prima volta in mostra proprio in quest’occasione.
Munis è una della
quattro storie di Women Without Men, la prima opera da regista con cui
Neshat ha vinto il Leone d’Argento al Festival del Cinema di Venezia
di quest’anno. Munis è il nome della protagonista del video, una ragazza che
assiste alla morte di un attivista politico e decide di riprendersi la propria
vita, tormentata dal fratello dispotico e conservatore, suicidandosi. Il video
racconta di libertà mancate, difficoltà d’espressione e capacità di morire
riappropriarsi, in un gesto estremo, di tutte le cose che le sono state negate.
Il lavoro di Shoja Azari, Odyssey, è stato
girato in un mattatoio abbandonato e racconta, con lunghi piani-sequenza, il
viaggio dell’uomo verso la sua distruzione. “Ci torturiamo tra noi,
riempiamo la terra di nostre vittime, ci avviamo verso l’annientamento più
totale”, dice l’artista, “Non riusciamo per caso a vedere il legame tra ciò
e il nostro desiderio di prevalere, la nostra sete di potere, di profitto?”.
I lavori in mostra partono da una
metafora sulla condizione umana e dalla situazione iraniana del ’53 e odierna,
per porre domande che si allargano al resto del mondo, Italia compresa.
Proprio sul parallelo fra l’Iran e il
nostro Paese, Neshat – nell’intervista a “La Repubblica” del 19 settembre
scorso – dice: “Noi abbiamo un presidente che va in televisione a dire che
c’è democrazia e che tutti sono liberi. Mi sembra che Berlusconi stia ripetendo
la stessa cosa. In entrambi i Paesi l’abitudine a mentire è piuttosto diffusa”.
Una mostra per chi pensa che la
verità sia un atto d’amore.
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Shoja
Azari / Shirin Neshat
Marco
Noire Contemporary Art
Via Piossasco, 29 (Borgo Dora) – 10152 Torino
Orario: da martedì a sabato su appuntamento
Ingresso libero
Info: tel. +39 0115364000; mob. +39 3397158165; info@marconoire.com; www.marconoire.com
[exibart]
Bravi i Noire che tornano a proporre la Neshat, bravi come sempre a scoprire talenti vedi Neshat vedi masbedo
veramente i Masbedo han fatto la prima mostra da Fabbrica Eos, ma il grande lancio con il video lo hanno avuto dalla Lipanje Puntin di Trieste
Una ribellione nei confronti di negazione dell’individuo e della sua libertà può passare
per il suicidio come forma di protesta e di liberazione solo se si è mussulmani.
Il suicidio, per quella religione, è codificato nel libro delle “sure” e i suicidi
del terrorismo islamico sono i più “puri”
rappresentanti di questo concetto. Ma non mi aspettavo che la Neshat, di cui mi sono interessato comme correlatore per una tesi su di lei, potesse concludere il suo ultimo lavoro sottolineando il suicidio come forma
liberatoria per una donna araba che ha difficoltà per il riconoscimento della sua autonomia intellettuale e umana.
Neshat sa che noi occidentali ben conosciamo
il vissuto etico di un personaggio religioso come Cristo che si fa condannare a morte come nemico
del potere romano, facendosi crucifiggere
per affermare la legge etica-religiosa nella
quale credeva.
Pensiamo che le donne, di qualsiasi latitudine e religione, devono sperare in una
“liberazione” sociale e spirituale, la liberazione indicata da Cristo e la Maddalena,
per intenderci, nell’episodio che si verifica
nella casa dei “Farisei”, della tribù e della cultura ebraica “dominante”, cioè, e collaborativa con i Romani. Ma non cercare nel suicidio la “redenzione” politica.
Siamo più con la resistenza dei ragazzi e ragazzi, la prima vittima e stata una giovane donna, che hanno protestato per le vie della capitale iraniane contro i brogli elettorali.
Noi siamo con le donne arabe e tutte le altre che vengono umiliate a tutte le latitudini, ma riteniamo che non debbano arrivare alla protesta ultima del suicidio, ma debbano trovare conforto e solidarietà in una lotta concreta, politica.
Per questo motivo, la titolare della cattedra
di storia della fotografia della Facoltà di Lettere dell’Università di Salerno, prof.ssa Gabriella Guglielmi e il sottoscritto, contrattista dello stessa, hanno
deciso di affidare alla laureanda Dora Serritiello, l’analisi dell’artista Neshat e delle sue “connotazioni” e la redazione della tesi, discussa e premiata dalla commissione con un’adeguato voto.
Antonio Tateo