“
Tutte queste parole sono state dette per spiegare che esse possono essere superflue di fronte alla presenza dell’opera”: Laura Cherubini chiude così il suo intervento per la mostra di
Gino De Dominicis (Ancona, 1947 – Roma, 1998) alla Fondazione Merz. Non poteva offrire un omaggio migliore a un artista che di parole “pubbliche” è sempre stato piuttosto avaro e per cui il termine “spiegazione” non rinvia alla struttura razionale del linguaggio, piuttosto a una conoscenza che passa dalla visione: “
La gente deve vedere e non sapere, deve riconoscere l’opera d’arte per quello che è e accettarne gli effetti”, secondo le sue stesse parole.
L’astoricità che si coglie nelle sue opere è in parte dovuta a questa “compressione” dei linguaggi: quello privato è l’unico possibile, il solo che attribuisca all’opera l’immortalità non concessa all’uomo. Perché è proprio l’immortalità (il tempo) il nocciolo della poetica dell’artista: “
Per esistere veramente dovremmo fermarci nel tempo, e finalmente così iniziare noi stessi a vivere, quindi essere noi stessi, e per noi stessi, a verificare”, scriveva nella
Lettera sull’immortalità. La natura verifica, attraverso la trasformazione delle cose, le possibilità di cui dispone, rendendole tutte mortali, uomo compreso. Mentre le opere d’arte hanno l’innata capacità di arrestare il tempo: “
Il disegno, la pittura, la scultura non sono forme d’espressioni tradizionali, ma originarie”. La trasformazione in immagini che compie l’arte nei confronti del mondo è l’unica maniera per arrestare il tempo, captarne l’origine e quindi il senso.
Perciò le sagome di Gilgamesh e della dea Urvasi, molto presenti nella selezione di dipinti in mostra, possono coesistere nella stessa immagine:
l’interpretazione libera di De Dominicis coglie in quelle iconografie lontane l’attualità del mito, gli elementi universali e significanti capaci di suggerire la vocazione all’immortalità dell’uomo.
Il percorso che i curatori hanno disegnato per mostrare l’universo coerente e complesso di De Dominicis raggruppa una serie cospicua di dipinti e alcune fra le installazioni più note: l’
Asta del 1967, un bastone dorato che rimane in equilibrio verticale senza alcun supporto apparente;
Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1970), ancora un’asta sospesa, uno scheletro umano con i pattini a rotelle che tiene uno scheletro di cane al guinzaglio; e
D’IO, una risata sinistra registrata nel 1971.
Secondo la volontà dell’artista, nessuna legenda fornisce indizi di lettura, così come i numerosi
Senza titolo liberano da condizionamenti linguistici. Tuttavia, un numero speciale trilingue di “Flash Art International” chiosa con testi importanti i vari momenti della sua poetica. Chissà se De Dominicis l’avrebbe licenziato. La sua proverbiale antipatia verso la fotografia e le riproduzioni (“
È sbagliato mettere sotto la riproduzione fotografica di un’opera d’arte il nome dell’artista: è il nome del fotografo che ha realizzato la foto che dovrebbe esserci”) ha provocato non pochi problemi agli addetti ai lavori e ha contribuito a contenere la diffusione della sua opera.
Al di là di questi limiti, anche lo spettatore più sprovvisto di conoscenza troverà conforto nella straordinaria perizia tecnica che traspare dalle superfici monocrome disegnate a grafite, spesso rialzate con polvere di vetro. Sono ritratti senza nome, che profondono una calma inquieta: forme lasciate aperte su uno o più lati, aeree nel loro apparire, ma costruite su uno spazio d’impianto geometrico (si veda il bellissimo
Senza titolo in blu del 1993 della collezione Ariedo Braida).
Volti “obliqui”, vagamente buddistici, che manifestano il contatto tra il mondo umano e quello dell’immagine, in quel limite che non è “
il punto in cui una cosa finisce ma ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza” (Heidegger).
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sono riusciti ad organizzare una mostra mediocre di un grande artista... i miei complimenti!