Spesso la verità sembra andare contro il buonsenso. Ma si continua ossessivamente a viverla, a vederla e a guardare a essa, per accettarla come tale. Perché, arrivati a un certo punto, all’alto là dell’evidenza, ci si rifiuta di trarne le conseguenze. Allora sembra che il mondo finisca con l’accettare qualsiasi rivelazione e ci si rassegni a ogni brivido, purché se ne sia trovata la formula. L’apertura della video-arte, come fascia visiva, spesso è degradata al rango di evidenza: tutti la ammettono e nessuno aderisce, perché forse il timore di una verità definitiva, nella narrazione filmico-artistica, sembra in qualche modo essere stato isolato e domato. In verità esistono due caratteristiche destabilizzanti di questa realtà digitale: l’astrazione della diegesi dalla nullità del tempo e il continuo scalare nuovi orizzonti di senso. Entrambe queste qualità sono l’essenza di un andamento linguistico che si esprime in maniera inquietante, anche se tecnicamente realizzato, sempre e soltanto, per banali fotogrammi.
Con
Stop & Go si analizza in parte quest’ascesa ritmica. La rassegna racconta attraverso l’esposizione di film e video le disavventure del tempo, le paure dello scatto in avanti e la sperimentazione della narrazione. Chi visita questa mostra, inutile sottolinearlo, si trova spaesato. La condizione del buio, la cavernosità del filmato, la sottomissione alle immagini, la lentezza delle interruzioni, l’ampliamento delle vedute e le invenzioni percettive la fanno da padrone.
Il filmato più rappresentativo di questa parte della collezione, quello più “storicizzabile”, è quel brano della regista
Babette Mangolte traslitterato in gesti per la danzatrice Trisha Brown. Dapprima ripreso a velocità normale e poi girato al rallentatore,
Watermotor descrive la scena dello sdoppiamento del corpo. Di quella carne che scivola all’interno di due movimenti, entrando in contatto con due mondi dalla consistenza nettamente diversa. I restanti lavori interessano dodici artisti che, utilizzando il film e il video, indagano le banalità del contemporaneo e della storia che lo ha portato a essere attraverso la rappresentazione dello svuotamento, dell’annientamento di contenuti mnestici e condivisi.
Nel video più oscuro e d’impatto di questa intera esposizione, quello di
Miguel Calderón, gli occhi di una pantera nel buio diventano lo starter che guida e accende l’attesa della paura. Da notare, con estrema attenzione, i tre schermi che riprendono il lavoro meticoloso di ricostruzione pantomimica di
Catherine Sullivan. L’artista mette lo spettatore sullo stesso piano delle vittime del teatro di Mosca, preso d’assalto prima dai terroristi Ceceni e poi dai corpi speciali dell’esercito russo. Di nuovo, ancora, curato da un’ottimo apparato narrativo, anche il video di
Douglas Gordon, che costruisce un ritratto cubista, tramite un ardito collage di diversi punti di ripresa. Grazie alla tecnologia combinatoria che coordina zoom e primi piani messi a fuoco da duecento cineprese, Gordon trasforma un’icona popolare come Zidane in una versione contemporanea di attrazione.
Da vedere anche l’installazione su Best di
Olaf Metzel, che trasforma un chiosco degli ultrà del Manchester United in una cornice per il dandy del calcio George Best. Infine, per quanto riguarda la sezione permanente di questa video-collezione, non rimane che leggere ad alta voce la lunghissima didascalia del lavoro del giovane
Jordan Wolfson e rimanere a vedere il linguaggio delle mani mimare il passo più noto del monologo de
Il grande dittatore.
Una mostra questa che esemplifica lo stretto rapporto tra fugacità dell’immagine riprodotta e debolezza del paesaggio mentale. Prima bloccato e poi lasciato andare sotto i colpi della fantasia.