Lo spazio è quello suggestivo di uno degli edifici dell’ex Arsenale, traccia fondamentale del percorso legato all’archeologia industriale nella città di Torino, simbolo di realtà profonde che hanno coinvolto milioni di persone in un restauro stupefacente per risultati e obiettivi. È un nuovo contesto espositivo e la mostra di
Alessandro Busci (Milano, 1971) vi si inserisce perfettamente: le pitture sono collocate a grandi distanze senza risultare disperse e paiono frammenti di ruggine incastonati nell’esistente.
Freddo nel freddo, ruvido nel ruvido: quello che emerge sono schizzi prospettici usciti da un plotter virtuale che stende linee di smalto sul metallo, trasformato dagli acidi in elementi di paesaggi artificiali. L’acciaio cor-ten è un materiale che attrae gli intellettuali e non solo per le sue caratteristiche strutturali; è l’emblema della materia che accetta in sé il mutamento (si ossida senza corrodersi), consentendo la trasformazione delle molecole ma garantendo la stabilità, quasi fosse il raggiungimento della saggezza senza il deperimento, della maturazione senza passaggi ulteriori.
Busci compie un lavoro di sintesi istintuale dell’immagine, nettamente favorito dall’imprinting mentale che naturalmente possiede un architetto, abituato a ragionare per consequenzialità di spazi e linee di fuga. Un’astrazione mentale che coglie ed evidenzia lo scheletro del reale, marcando i dettagli essenziali che ne delineano l’essenza.
Uno spirito alla
Cézanne, che ampiamente sfrutta la formazione ricevuta senza purtroppo approfondire la conoscenza, evidenziando così una chiara superficialità espressiva, che evita i reali processi di analisi del presente, e in questo dissentiamo profondamente dalle tesi critiche proposte in merito.
Il risultato è che le immagini risultano stereotipate, anche quando a essere oggetto di attenzione sono modelli che catalizzano l’attenzione dell’osservatore, che si tratti dell’avveneristico Beijng Stadium o del Guggenheim di Bilbao, delle strutture di
Renzo Piano o di San Siro. Come un rapire la quintessenza di un capolavoro senza restituirne un valore adeguato.
È anche vero che a tratti emerge una libertà nella gestualità che lascia presagire il passaggio ulteriore da compiere; nella masse informi delle periferie industriali, in alcuni spunti dei nuovi lavori su carta, la gestualità diventa più personale e quindi più sincera. Il confronto con i materiali di cui studia le caratteristiche racchiude la chiave della tuttavia innegabile tensione interiore di Busci.
È grazie ai suoi esperimenti se i quadri sono carichi di un coinvolgimento “romantico”, che ci ricorda, osservando alcuni scenari vagamente apocalittici dei suoi cieli con aerei, la frase di Novalis: “
Là dove non ci sono più dèi regnano gli spettri”. Gli spettri delle nostre città non viste nella loro autenticità, ma riassunte in linee sterili e scontate.
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Finalmente una critica e non la semplice recensione!
Concordo con Mulino Bianco, anche se non era forse questa la mostra giusta per iniziare a essere critici.
La mostra è bellissima, una pittura forte e sintentica che non mi sembra pretenda di essere "analitica".
"rapire la quintessenza di un capolavoro" implica la riuscita dell'operazione e non il contrario.
Anche se le opere meno architettoniche mi sono sembrate le più convincenti.
Reggere il confronto con quello spazio dimostra la forza della pittura di Busci, lo riconosce anche Reale che forse si contraddice un pò!
Ma cosa c'entra Cézanne?
Per quel che ne so di B.R. è già molto che abbia deciso di scriverne..