Chi cercherà in queste righe il nome dei protagonisti dell’Arte povera rimarrà deluso: la mostra è colma di storie di uomini che sono stati più che celebrati, più che ammirati, più che capiti. Esposte oltre trecento foto che raccontano di loro e del loro lavoro, e solo uno sguardo distratto potrebbe non rendersi conto di quanto esse siano state selezionate e accostate con attenzione.
Più importante è in questa sede delineare la figura del fotografo che li ha accompagnati per un tratto di strada e che, nel suo studio, parlando di sé con toni pacati, ha ammesso di aver conosciuto, in qualche fortunata occasione, il sublime. Inteso come momento di profonda unione con l’energia dell’universo, in cui si avverte di aver toccato le corde più sensibili del proprio essere e di aver realizzato quello slancio verso l’infinito a cui molti artisti anelano.
Questo di Palazzo Cavour è un evento realizzato con grande cura e immenso lavoro: un allestimento sobrio, raffinato ed essenziale (all’interno di spazi espositivi tutt’altro che facili) in cui le foto, tutte di piccole dimensioni, sono il tesoro a cui avvicinarsi, su cui chinarsi per scoprirne gli infiniti dettagli. Quello di
Paolo Mussat Sartor (Torino, 1947) con il suo obiettivo è sempre un incontro pensato, studiato, ragionato.
Lo stile scelto è il medesimo nel corso degli anni, bisogna osservare la didascalia per ritrovare i lavori del 2008. Gli esperimenti formali non fanno parte di questa mostra; Sartor si riconosce in un bianco e nero che è esclusivamente suo appannaggio.
Ama i toni che sfumano verso il buio, verso il mistero oltre il quale è difficile giudicare l’animo umano. E in quanto ad animo, Sartor non ne possiede uno comune. È un vero signore d’altri tempi. Non teme i propri dubbi. Li esterna con la stessa franchezza con la quale inquadra le persone che incontra. Risoluto e nobile, aborre la superficialità. Nell’epoca del clamore massmediatico, reclama il valore del silenzio, per continuare a definire un’identità troppo accentuata perché possa omologarsi alla figura dell’artista sempre meno soggetto protagonista nel panorama contemporaneo.
Ha avuto la fortuna di confrontarsi quotidianamente con personaggi che non temevano di condividere idee e intuizioni, che hanno saputo distinguersi all’interno del gruppo, e che del gruppo si sono alimentati. Le osservazioni di Sartor relative agli anni ‘70 sono acute ma prive di nostalgia. Come solo può fare chi è consapevole di aver vissuto pienamente e con una sorta di autentica ingenuità ogni stimolo ricevuto. Uno sguardo attento, che ha saputo essere discreto e al tempo stesso assoluto interprete del pensiero oltre la realtà, all’interno degli spazi utilizzati: gallerie ampie e deserte, luoghi monumentali abbandonati, studi d’artista. Resta una testimonianza diretta del processo creativo, dell’energia sprigionata durante la realizzazione dell’opera.
E nulla di ciò ch’è esposto sarà troppo superato o di un altro tempo, gli stessi pilastri della Mole prima del restauro non sono mai stati così essenziali, così come la scultura di un corpo modellato da un lenzuolo, già pensato, già realizzato molto prima che l’idea fosse utilizzata per creare scalpore. E la profondità dei ritratti si ricompone nel corretto contesto compositivo, fino a diventarne icona di riferimento.