Quanto più si desidera una cosa tanto più la si fugge. Per paura di attaccarsi troppo profondamente ai beni terreni, come ai sentimenti. Che ormai sembrano fatti della stessa labile materia. La fugacità -racchiusa nel termine giapponese ukyioe (mondo fluttuante)- pare così tornare al suo significato originario di derivazione buddista, anche se in senso negativo. Perché, mentre per il saggio era una scelta morale la fuga precipitosa dalle scale della vita al fine di preservarsi l’anima, ora -per il comune mortale- è una necessità insopprimibile dettata dal timore. Che finisce per condurre in un perenne stato di alienazione, non meno ostile e insidioso della realtà medesima. Così si spiega l’ambiguità delle immagini disegnate da Irini Karayannopoulou (Tessalonica, 1973), alla sua prima personale in Italia. Autrice di nebulose short stories bucoliche dal sapore onirico e amaro al tempo stesso, dimostra una sottile inquietudine attraverso un tratto impreciso, indefinito, esistenzialmente fluttuante. Come quello a cui si riferisce il curatore Luca Vona, sottolineandone però la completa estraneità rispetto agli esiti raggiunti da quel tipo di arte giapponese a partire dal Seicento, più votata alla ricerca del piacere edonistico che al distacco ascetico. Disseminando la galleria dei suoi fogli da disegno, Karayannopoulou sembra voler riprodurre il caos dei segni in bianco e nero e la vertigine che ne consegue. Acuìta dallo stordimento tipico della musica punk, da lei stessa composta, cantata e registrata nel dicembre 2005 per accompagnare la videoanimazione This is my room. Dove un incessante fluire di scene scaturite l’una dall’altra -in una sorta di automatismo psichico- intende rimarcarne la dimensione di completa irrealtà.
E rivendicarne una parossistica libertà da tutto e da tutti, tale da sfociare inevitabilmente nel disagio. Trait d’union di entrambe le forme artistiche, rivelatore dell’ossessivo vomitare da parte dei due protagonisti, alle prese con ogni tipo di avventura fantastica. Per tentare di sfuggire, almeno un poco, alla gravità del vivere quotidiano.
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claudia giraud
mostra visitata il 6 aprile 2006
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ma il grande medico dell arte contemporanea non aveva chiuso??? Beh certo che se avesse deciso di tenere aperto e si presenta con questa robaccia andiamo bene!!! Non ha proprio capito che un gallerista non diventa grande andando a pescare due artistucci con il nome inpronunciabile???