All’inaugurazione, Carol Rama (Olga Carolina Rama, Torino 1918. Vive a Torino) ha raccontato del timore che le ispirava l’open space della Fondazione. Quando però ha visto Nonna Carolina (1936), ne ha sfiorato la superficie e da allora si sono susseguiti i complimenti rivolti agli allestitori. Perché in questo caso si tratta di un aspetto centrale della mostra, realizzato da Corrado Levi e del gruppo +CLIOSTRAAT.
Seguendo la scansione espositiva, è evidente il primo livello, puramente cronologico; ma appena ci si sofferma sulle “aree” ricavate nello spazio della Fondazione, si noterà che ogni periodo di Rama è stato in un certo modo ricreato sin nella disposizione dei lavori e nella calibrazione dei volumi e delle prospettive che accompagnano il visitatore.
Per esempio, entrando si troverà a sinistra una infilata di lavori poco noti, oli su tela dal sapore casoratiano, che però terminano con un tono su tono ai limiti della s-figurazione, Masturbazione (1944). A destra, Opera n. 11 (Renards) (1938) invita a entrare in una sorta di boudoir allestito su due pareti perpendicolari, caotico e scioccante: sono i primi acquerelli, che coprono un arco di tempo che va dal 1936 al 1941, con opere come l’Appassionata (1940) priva di arti, sulla sedia a rotelle, con il capo cinto da una corona di fiori viventi.
In questo modo prosegue la proposta delle opere di Carol Rama, con la fase che qualcuno ha definito para-surrealista compresa fra il 1947 e il 1951, poi il periodo di adesione al Mac, che termina con l’oggetto-feticcio La Pelliccia (1954), “coperta” disegnata dall’artista e realizzata dal nonno Adolfo. All’alba degli anni ’60, fanno irruzione motivi profondamente materici, che rendono la tela ospite di materiali eterocliti e perturbantemente quotidiani, con i celebri occhi di bambola o le impressionanti Siringhe (1967). Dunque, forme e materiali che rimandano a un fisiologico assai moderno, alle correnti che poi si sarebbero definite post-, prefisso seguito di volta in volta da umano, organico o magari nuove e realistiche nevrosi, come ha scritto Curto a catalogo.
Ma Carol Rama scarta continuamente le classificazione, sovverte con sagacia ogni tentativo di incasellamento, e allora fa ruotare “lavori-cattedrali” -le gomme– intorno a un cavalletto che sostiene decine di camere d’aria (Presagi di Birnam, 1970), oppure presenta tele reticolari con grafici da elettroencefalogramma realizzati con ago e filo (Senza titolo, 1973). Anche se mai abbandonato, il corpo fa nuovamente la sua comparsa, figurativa e scostumata, nella serie della Mucca pazza (1997), con gomme-mammelle, tranci appassionati e opere realizzate negli anni ’80 su fogli catastali e progetti architettonici (recentemente, la Mole rovesciata di Levi e Cliostraat).
Il discorso sarebbe lungo e tortuoso, perché fortunatamente ancora in corso, come testimoniano le acqueforti mostrate nel corridoio. Energia senza fine, abissale, che ci auguriamo si esaurisca fra molti, molti anni.
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