Riso e rose: è questo il nome della manifestazione tipica che vede quest’anno, tra i (pochi) appuntamenti culturali, la collettiva fotografica che, se da un lato ha il merito di aprire i battenti dell’ex chiesa Mater Misericordiae, dall’altra soffre proprio per quest’impostazione, che in un allestimento compresso e fortemente caratterizzato non lascia “respirare” adeguatamente le cinque
firme dell’obiettivo chiamate ad hoc, e pecca d’ingenuità nell’operazione video dislocata nella Cappella del Castello.
Una volta tanto, la locuzione site specific non è abusata: gli sguardi infatti si sono concentrati
a e
sulla città, che di memorie e scorci non è avara né prodiga. La differenza, allora, l’hanno fatta l’interpretazione, le varianti prospettiche, le scelte tecniche e le declinazioni affettive. Perché tutti gli artisti sembrano aver instaurato col “soggetto” un contatto personale, e non (solo) di mestiere.
Il legame più intimo può vantarlo
Luciano Bobba, che crea uno spazio meta-temporale di sfoglie epidermiche, sensibilissime, dissolvendo i confini accessori tra passato e presente:
non una semplice sovrapposizione d’immagini, ma una morbida integrazione fra le visioni attuali e gli scatti di
Francesco Negri, pioniere otto-novecentesco della fotografia, di cui la “capitale del Monferrato” custodisce il prezioso archivio.
Ed è una realtà dai contorni sfocati anche quella di
Enrico Stefanelli: qui la riflessione sul
genius loci trova la sua ragion d’essere nel contrasto, a partire dalla più stereotipata fra le antinomie, quella tra giorno e notte, con l’autore che, novello
Manet “armato” di Holga, attraverso un’esposizione lenta cristallizza nei due diversi momenti della giornata lo stesso angolo, lo stesso vicolo, la stessa facciata, la stessa piazza.
Pare vagamente che Casale non possa esser raccontata senza una patina di malinconia e un’atmosfera di sospensione, come fa il monumentale
Franco Donaggio, nella sua languida e screziata archeologia del presente; imperiosi, invece, i tagli “pittorici” di
Gabriele Croppi, metafisico, inquietante e dotato di coraggioso piglio compositivo.
Controcorrente i coloratissimi mosaici di Polaroid di
Maurizio Galimberti, inni alla simmetria e alla corrispondenza perfetta, la cui distanza rispetto al
corpus bianco/nero o sfumato dell’esposizione viene sottolineata
fisicamente dalla disposizione isolata sull’altare maggiore.
Dalla facciata della cattedrale romanica di Sant’Evasio alla “sinagoga più bella d’Europa”, lavori frutto di lunghi e appassionati appostamenti per trovare la luce, l’inquadratura e il momento giusti. Quel che si dice una caccia al tesoro.