Entrando negli ampi spazi ex industriali della Fondazione Merz si è accolti da piccole montagne di riso a perdita d’occhio, disposte in lunghe file perfettamente regolari. Occupano tutta la sala e s’intravedono anche nelle stanze laterali. Al centro si erge, altissima, una costruzione di cera d’api a gradoni, una ziggurat profumata. Guardando meglio tra le montagnole allineate sul pavimento si scorge repentino un cambio di colore: tra i filari di riso bianco, ecco un frammento di giallo squillante, una linea di piccole accumulazioni di polline.
L’universo di
Wolfgang Laib (Metzingen, 1950) è tutto qui: natura e geometria, minimalismo e ritualità, astrazione e materia. Dagli anni ’70, Laib espone “frammenti di natura”: le
Milkstones, superfici concave riempite di latte, i quadrati con i pollini che lui stesso raccoglie nei dintorni della sua casa, le
Rice Houses. La natura è la sua materia prima; cose quotidiane, apparentemente semplici, eppure risultato di un complesso ciclo vitale: il polline simboleggia l’inizio, il riso il nutrimento, la ziggurat di cera d’api il legame fra cielo e terra. Le sue opere sono il frutto d’un rituale attento, dal sapore vagamente zen: essenzialità e ordine geometrico per raggiungere, attraverso il rigore della forma, equilibrio e perfezione.
Lo spazio allestito alla Fondazione Merz non è semplicemente una mostra, ma un invito alla riflessione e alla meditazione. È uno spazio rigoroso, essenziale, frutto di un lavoro lungo e accurato, un’area di decompressione dal resto del mondo. Quella di Laib non è, semplicemente, arte contemporanea. D’altronde, Laib non è semplicemente un artista: non si è mai accontentato di curare i corpi e ha deciso di dedicarsi all’arte per occuparsi dell’esistenza.
Infatti c’è un forte aspetto rituale nelle sue opere, a partire dalla lunga e minuziosa raccolta dei materiali che le compongono. È una ritualità che attinge all’Oriente, a quell’India che l’artista ben conosce; ma è una ritualità come asciugata, resa austera e minimale, priva di orpelli, in un certo senso più vicina all’estetica occidentale.
Non a caso, la mostra non si conclude nell’allestimento di queste sale. A giugno arriveranno a Torino 45 bramini da uno dei templi più grandi dell’India, per celebrare la cerimonia vedica del fuoco, che Laib descrive così: “
Si brucia il mondo materiale, simboleggiato dai vari tipi di cibo, riso, lenticchie, burro, frutta, verdura, fiori e latte, insieme a pezzi di stoffa, vestiti, erbe e piante medicinali: si tratta di rinuncia e di rinascita, della nascita di un qualcosa di nuovo e di completamente differente”.
Non solo una mostra d’arte, dunque, ma un percorso spirituale, la celebrazione di un rito. Così si compierà questa mostra che, dice lo stesso Laib, è stata inaugurata su una collina di granito in India, durante un’analoga cerimonia del fuoco.
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Buongiorno ragazzi
Piu che un commento mi serviva un consiglio, per quanto adoro il lavoro di Laib sarei gia corso a torino, ma cio che mi frena è il fatto che ad ospitarla sia la fondazione Merz, ho visto li due mostre ( matthew barney e gino de dominicis) e son state le due mostre peggio curate che abbia mai visto o quasi. hanno ucciso 2 miti percio vorrei un parere sincero da chi l'ha vista. cosa ne pensate?