Per sostenere prima e misurare poi il genio, quasi mai la provincia risulta essere l’ambiente e il metro migliore: il copione più comune vuole al riguardo che straordinarie esperienze creative si consumino infatti nell’indifferenza, quando non nell’ostilità, quindi seguano al più saltuarie celebrazioni post mortem, magari ad uso di assessori in odore di campagna elettorale. Il caso di Ego Bianchi risulta in questo senso emblematico, e dunque a maggior ragione è ora di riconoscere il fatto che egli è stato un grande artista del Novecento, senza limitanti specificazioni geografiche o stilistiche. Quand’era in vita, Bruno Cassinari, Pablo Picasso, Aligi Sassu e tanti altri grandi nomi noti furono suoi amici ed estimatori, conoscendolo soprattutto nel corso di soggiorni in quella Costa Azzurra che tanto amava. Ma la sua parabola esistenziale troppo breve –poco più di quarant’anni, consumati tra il 1914 e il 1957 per lo più in provincia di Cuneo, passando da un sanatorio all’altro, fino alla definitiva vittoria della tisi che lo minava nella salute sin da ragazzo– si è conclusa relegandolo ingiustamente ad una semplice nota a piè di pagina nella storia dell’arte del secolo scorso. Pure, basta leggere qualcuna delle vibranti annotazioni che questo artista appassionato amava lasciare in miriadi di foglietti volanti o incollati sul retro delle tele all’insaputa dell’acquirente, per rendersi conto della trascendenza che egli dalla malattia, dalle ristrettezze economiche e dalle incomprensioni seppe trarre, con una disciplina pari
Magnifico disegnatore e ceramista provetto, Bianchi è comunque ricordato soprattutto per la pittura, a cui si dedicò con costanza per oltre vent’anni, e con cui arrivò infine a presentarsi alla Biennale di Venezia nell’edizione del ‘56. Dopo un apprendistato rigoroso svolto approfondendo in successione i canoni impressionista e post-cubista, Bianchi ha saputo infatti liberare un’ampia tavolozza di colori vibranti entro un disegno leggerissimo dalla linea floreale applicato ora al paesaggio, ora a una galleria figurativa affatto personale, che comprendeva i ritratti dei malati suoi compagni di sanatorio come i giochi del circo e, soprattutto, le navi, che venne dipingendo nell’ultimo anno di vita. L’agiografia laica cresciuta intorno a Bianchi vuole che, negli ultimi mesi del 1956 e i primi del 1957, già conscio della sua prossima morte egli si sia dedicato con febbrile struggenza a dipingere una vera e propria flotta di navi modellandole sulle proprie visioni notturne, partendo da forme antropomorfe per giungere a strutture minimali dove è un colore aereo, poeticamente informale a imporsi assoluto nell’immagine. La mostra ora in corso a Cuneo, destinata poi a trasferirsi nella vicina Mondovì dal 28 aprile al 13 maggio, consente finalmente di ammirare direttamente molte di queste straordinarie elaborazioni oniriche, dove la portata archetipica di un oggetto come la barca –da sempre in ogni cultura simbolo di viaggio spirituale– si fonde a una mirabile modernità cromatica e sensualità del segno. Una leggenda schiettamente provinciale vuole che, il giorno della morte, dal pilastro della modesta casa abitata con la compagna pittrice Dada in viale degli Angeli a Cuneo, sia caduta l’insegna di ceramica modellata dallo stesso Ego e che lo ritraeva scherzosamente nella forma di un pennello.
A distanza di cinquant’anni da quella caduta, una retrospettiva curata con genuina dedizione dai professori e studenti del liceo artistico che porta il suo nome, rende finalmente giustizia all’artista, in attesa che un pubblico più ampio si renda finalmente conto della grandezza di Ego Bianchi, risollevandolo al riconoscimento che merita.
luca arnaudo
mostra visitata il 24 marzo 2007
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