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Quella tra figurazione e astrazione è stata spesso, fin dagli anni ’80, una diatriba sterile. Come ben afferma il filosofo Arthur C. Danto, “un tipico artista della nostra epoca potrebbe annoverare come influssi sul suo stile pittori astratti o figurativi, in quanto la vecchia divisione si è sgretolata, e tutt’al più resta come ricordo”. La pittura è un medium teso a ridefinire continuamente la propria identità, rifuggendo dagli stereotipi, privilegiando un pluralismo di linguaggi e cifre stilistiche.
Pietro Finelli (Montesarchio, 1957) ha impostato il suo percorso di ricerca sull’idea di una pittura che, “di fronte all’intensificarsi delle varie tecnologie, prende altre strade”. Il linguaggio pittorico deve non solo sapersi innervare nel tessuto sociale, ma anche trarre forza dalla sua struttura interiore; deve rendere funzionali gli slittamenti di senso, sollevando interrogativi che traggano linfa dal vissuto.
I dipinti proposti nella mostra Calpestare palesano l’ibridazione stilistica, sentita come una qualità intrinseca e “naturale”. Il titolo della rassegna nasce da un gesto casuale, aver calpestato fogli abbandonati sul pavimento di un convoglio della metropolitana, per evitare di inciamparvi. Curiosamente il caso suscita riflessioni sull’etimologia del verbo e sulle sue implicazioni semantiche collaterali. Se è vero che calpestare richiama immediatamente aggressività, oppressione e autoritarismo, la parola suggerisce altresì l’idea di camminare, incontrare nuove situazioni, fare esperienze e, dunque, conoscere più a fondo.
L’ampio ventaglio di significati si riverbera anche nei titoli scelti per i singoli lavori. In Light in the night il profilo di un edificio, definito da segni bianchi, illuminato all’interno da minuscole luci colorate, si staglia sullo sfondo notturno, palesando la dicotomia tra luce e tenebra. Agesilaus Santander evoca, attraverso un segno avvolgente che si dipana sulla tela, l’Angelo di Walter Benjamin, che procede verso il futuro guardando alle rovine del passato.
Factory with shelds mescola armonicamente architettura e pittura: nove oli di piccolo formato sono disposti sulla parete in una sequenza che alterna astrazione e figurazione, all’interno di un ricalco sul muro, realizzato con un nastro adesivo nero. Sulla parete di fronte è posto un lavoro similare nella struttura: cinque tele di piccolo formato, quattro astratte, una iconica, contestualizzate dentro il profilo nero di una casa, nella quale ben si riconosce la scala. Il titolo, Guido Cavalcanti e i segni, riporta alla mente la qualità immaginifica del più grande poeta dello Stilnovo.
I rimandi linguistici sono ulteriormente esaltati dalla voce registrata di James Joyce che legge frammenti da Ulysses e da Finnegans Wake. Un fluire di parole la cui inesauribilità rimanda a quella dell’inconscio.
Pietro Finelli (Montesarchio, 1957) ha impostato il suo percorso di ricerca sull’idea di una pittura che, “di fronte all’intensificarsi delle varie tecnologie, prende altre strade”. Il linguaggio pittorico deve non solo sapersi innervare nel tessuto sociale, ma anche trarre forza dalla sua struttura interiore; deve rendere funzionali gli slittamenti di senso, sollevando interrogativi che traggano linfa dal vissuto.
I dipinti proposti nella mostra Calpestare palesano l’ibridazione stilistica, sentita come una qualità intrinseca e “naturale”. Il titolo della rassegna nasce da un gesto casuale, aver calpestato fogli abbandonati sul pavimento di un convoglio della metropolitana, per evitare di inciamparvi. Curiosamente il caso suscita riflessioni sull’etimologia del verbo e sulle sue implicazioni semantiche collaterali. Se è vero che calpestare richiama immediatamente aggressività, oppressione e autoritarismo, la parola suggerisce altresì l’idea di camminare, incontrare nuove situazioni, fare esperienze e, dunque, conoscere più a fondo.
L’ampio ventaglio di significati si riverbera anche nei titoli scelti per i singoli lavori. In Light in the night il profilo di un edificio, definito da segni bianchi, illuminato all’interno da minuscole luci colorate, si staglia sullo sfondo notturno, palesando la dicotomia tra luce e tenebra. Agesilaus Santander evoca, attraverso un segno avvolgente che si dipana sulla tela, l’Angelo di Walter Benjamin, che procede verso il futuro guardando alle rovine del passato.
Factory with shelds mescola armonicamente architettura e pittura: nove oli di piccolo formato sono disposti sulla parete in una sequenza che alterna astrazione e figurazione, all’interno di un ricalco sul muro, realizzato con un nastro adesivo nero. Sulla parete di fronte è posto un lavoro similare nella struttura: cinque tele di piccolo formato, quattro astratte, una iconica, contestualizzate dentro il profilo nero di una casa, nella quale ben si riconosce la scala. Il titolo, Guido Cavalcanti e i segni, riporta alla mente la qualità immaginifica del più grande poeta dello Stilnovo.
I rimandi linguistici sono ulteriormente esaltati dalla voce registrata di James Joyce che legge frammenti da Ulysses e da Finnegans Wake. Un fluire di parole la cui inesauribilità rimanda a quella dell’inconscio.
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a cura di Alan Jones
Velan Centro Arte Contemporanea
Via Modena, 52 (zona Regio Parco) – 10153 Torino
Orario: da martedì a venerdì ore 16-19
Ingresso libero
Info: tel./fax +39 011280406; info@velancenter.com; www.velancenter.com
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