Torna la Triennale di Torino. Come dice l’Assessore alla cultura della città Fiorenzo Alfieri, torna per “
bucare lo schermo e dimostrare come in un momento economico difficile sia ancora possibile in Italia fare cultura ad alti livelli”. Lo scopo è raggiunto affidando la direzione della seconda edizione della Triennale all’uomo che la classifica dei
Power 100 di “Art Review” mette al tredicesimo posto: Daniel Birnbaum, quarantacinquenne curatore svedese, rettore dell’influente Städelschule Art College di Francoforte, curatore di Portikus, della prima Biennale di Mosca, dell’ultima Triennale di Yokohama e da aprile direttore della 53esima Biennale di Venezia.
Dopo esser stato a Torino per disegnare la sezione
Constellation di Artissima 2007, Birnbaum torna in città. Non abbandona la cosmologia e presenta le
50 lune di Saturno: “
È una mostra che parla di trasformazione, di digestione e di sfida”, dice. Proprio l’astro della nostalgia è la musa che ispira i lavori, spesso creati
ad hoc, degli artisti presenti nella collettiva che si divide tra Promotrice delle Belle Arti, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Castello di Rivoli.
Dopo la bulimia gargantuesca di tre anni fa (due curatori, dieci corrispondenti, 75 artisti, otto sedi espositive) è arrivato il momento di fermare l’abbuffata: tagliando i costi (un solo curatore, cinquanta artisti – di cui tredici italiani – e tre sedi espositive) e sedendosi a pensare. Magari con lo sguardo perso nel vuoto e il mento poggiato sulla mano, come nella xilografia di
Albrecht Dürer che porta nel titolo il tema principale della mostra: la malinconia. “
La tradizione considera l’animo saturnino proprio dell’artista”, spiega Birnbaum. “
Ma la malinconia è un concetto ambivalente e spaesante che dà la sensazione che, nonostante tutto, un cambiamento radicale sia possibile“.
Il sonoro della mostra è il ronzio antico dei proiettori Eiki da 16 millimetri. Il rumore malinconico dei filmini dell’infanzia è tornato tanto (forse troppo) di moda da colonizzare quasi la metà delle proiezioni distribuite fra i tre spazi espositivi. Sono su pellicola gli onirici film dell’americana
Jennifer Bornstein, l’enigmatico lavoro di
Joachim Koester, i riflessi acquatici dedicati al mostro di Loch Ness di Gerard Byrne, l’ipnotico (e abbagliante) video di
Rosa Barba e la metanarrazione di
Jordan Wolfson.
C’è poi un altro filo conduttore: l’attrazione cosmica. Gli astri ispirano le tele di
Wilhelm Sasnal, i neon di
Spencer Finch, la
Cellar Door di
Loris Gréaud. È una cosmologia artistica che culmina nell’installazione
The sun has no money del danese
Olafur Eliasson: una stupefacente galassia che annulla i confini spaziali della sala principale del Castello di Rivoli.
Altro elemento che accomuna molti lavori è il richiamo alla citazione, al vecchio, a schegge di passato dall’attualità inquietante. Le teorie ottocentesche di Lombroso, nel video di
Antonio Cataldo & Mariagiovanna Nuzzi, sono perfette nella società contemporanea, che dà alle paure volti ben riconoscibili. Il
DATAmatic880 del polacco
Robert Kusmirowski ricorda l’agghiacciante Hal9000 di
Kubrick ed è specchio dei futuri rapporti uomo-macchina. Ancora, gli ambienti ansiogeni di
Tatiana Trouvé trovano una triste somiglianza con quelli delle morti bianche e il rumore straziante dei carillon di
Eprom, mentre il bel lavoro del giovane
Alberto Tadiello, rimanda alla comunicazione moderna in cui l’eco assordante di rumori e parole si perde presto nel silenzio e nella smemoratezza generale. Ma ci sono anche lavori che sembrano meteore impazzite, perché sono prive del rigore delle traiettorie celesti che il tema della mostra suggerirebbe.
Infine arriva
Paul Chan a tirare le fila. Il giovane artista di Hong Kong è un accanito citatore: nei suoi video “pixellosi” fonde le utopie di Charles Fourier alle visioni di
Henry Darger e
Goya, le fantasie di Sade alle immagini di
Pasolini. Dice: “
Guantanamo o Abu Ghraib sono i castelli sadiani di oggi. Per quanto mi riguarda, stiamo vivendo le 120 giornate di Sodoma”.
Sta tutto qui il senso della malinconia odierna, nel sentirsi come l’“angelo della storia” di Walter Benjamin che, volando verso il futuro con il viso rivolto al passato pieno di catastrofi, non può far altro che chiedersi: “
Quante ancora ne dovrò vedere?”.