Ci si abitua a tutto: questo potrebbe essere un teorema da dimostrare, senza grossa difficoltà. Infiniti i corollari, dove la guerra sembra una condizione necessaria, e dove la pace è un periodo di vacanza, dove tutti parlano senza far sentire che forse sarebbe necessario tacere e magari cedere, arrendersi per provare a convivere. Dove la ricostruzione è un affare o un investimento, e la distruzione una necessità.
Esistono luoghi dove le culture si frammentano e si incancreniscono. Dove il dialogo non parte mai dall’unica base logica, quella della compassione; dove si bombarda a fasi alterne, dove i ragazzi crescono e non possono sognare la stabilità. Eppure ci si abitua e si sopravvive, tanto da riuscire a progettare e a produrre arte.
Cercando il distacco e l’ironia, come scrive il curatore Costantino D’Orazio, felice di essere riuscito nel suo intento e di aver organizzato due mostre, una a Beirut e una alla Fondazione Merz, e di aver dato così l’occasione di una reale visibilità a un gruppo di artisti libanesi, che si sono confrontati su temi e tecniche con altrettanti artisti italiani. Una mostra interessante. Protagonista Beirut, e i suoi mille progetti di ricostruzione.
Capitale che conosciamo attraverso le immagini del 1991 di
Gabriele Basilico (Milano, 1944), presenti in una mostra parallela, sempre alla Fondazione Merz. In esse parla il silenzio, non le ferite causate da quindici anni di guerra civile. Laddove l’orizzonte pare sollevato, superiore al male, il punto di vista dell’osservatore è centrale, fisso, a cogliere la maestosità di quello che l’uomo può costruire. E non proteggere.
Prima delle opere di Basilico, allestite al piano inferiore, s’incontrano una cascata di delicatissimi intagli di
Elisabetta Di Maggio, carta bianca fluttuante che ricorda l’incrociarsi di vie e isolati. Che in modo scientifico sono invece riportate su gomma pesantissima e nera nell’analisi della pianta della città effettuata da
Marwan Rechmaoui.
Alle finestre un’altra cascata: sono i soldati rosa shocking di
Zena el Khalil, che si intersecano a evidenziare un diverso paradigma dell’infanzia.
Luisa Rabbia propone una scultura in ceramica frammentata in cui la potenza della natura invade una casa in disuso, denunciando lo scorrere ineluttabile del tempo.
Gli approcci continuano a essere diversi:
Rima Saab ricerca i segni della guerra civile sui muri di Beirut,
Pascal Hachem invece fa vibrare il muro della Fondazione, attraverso una installazione in cui diversi martelli, a turno e lentamente, colpiscono la parete con un tonfo assordante.
Una saletta racchiude le opere di
Marzia Migliora: un progetto con 33 disegni di un bosco minuto, delizioso e inquietante allo stesso tempo. Dolore e paura fra i sentimenti incastonati in un ciclo naturale.
Particolarmente significativi i lavori di
Randa Mirza con la serie fotografica
Parallel Universes, in cui si sovrappongono in un surreale fotomontaggio situazioni di guerra e di pace, personaggi che convivono con studiata indifferenza. E, ancora, l’assurdo nel video di
Michael Fliri, in cui l’artista cammina sulla neve su trampoli precari, un difficile equilibrio nel contesto ambientale.
Le parole di Basilico siano un segnale, fra gli altri, di speranza: “
La mia impressione era che tutto si svolgesse come se le persone avessero abbandonato gli spazi per tornarci in un futuro prossimo. Mi sembrava che alcuni se ne fossero andati e che altri stessero per arrivare. Tutto sommato la situazione poteva sembrare quasi normale: la città era solamente caduta in un lungo periodo di attesa”.