“
Questo quasi inconsapevole, involontario tracciare ghirigori, stendere appunti caricaturali, fare pupazzetti inesauribili che mi fissano da ogni angolo del foglio forse è una specie di traccia, un filo, alla fine del quale mi trovo con le luci accese, nel teatro di posa, il primo giorno di lavorazione”. Lo diceva
Federico Fellini, ma potrebbe tranquillamente sottoscriverlo anche
Bigas Luna (Barcellona, 1946), in mostra da Marena Rooms con i suoi
Ninots, letteralmente pupazzi, in realtà schegge d’idee lanciate sulla carta in forma di appunti viventi.
Corpi informi/deformi, espressioni appena accennate eppure chiarissime: i ninots emergono da un magma di sogno, come per ebollizione. Sono figure possibili, figlie d’incontri e visioni, chissà se destinate a diventare, come ha scritto Luca Beatrice, “
star del grande schermo”. Perché proprio come Fellini, anche Bigas Luna – giustamente noto per aver vinto nel ‘92 il Leone d’Argento con
Jamon, jamon, e ingiustamente noto in Italia per aver trascinato Valeria Marini al cinema con
Bambola – affida alla dimensione grafica le suggestioni del momento, salvo poi manipolarle e tradurle in linguaggio filmico.
Due metodi espressivi differenti, eppure in grado di restituire la medesima ricchezza narrativa. Lo dimostrano i video che accompagnano i ninots: micro-storie che vedono protagonista la donna, spesso deificata nell’esaltazione del seno come feticcio d’una maternità debordante e totale.
Bigas Luna sembra fare attraverso l’immagine ciò che Jean Giono compie per mezzo della letteratura: si riappropria dell’essenza ingenuamente e placidamente violenta dell’uomo. Al punto che tanto gli sfuggenti ninots quanto le donne raccontate nei video sembrano rispondere pienamente alla dialettica della mitologia. E così come gli amplessi zoofili di Zeus scansano la perversione e cedono alla poesia, allo stesso modo i seni zampillanti ritratti da Bigas Luna eludono l’erotismo e restituiscono la potenza vitale della natura.
Le ombre danzanti dei ninots, a volte leggere e fruscianti, altre piegate sotto innegabili ma invisibili macigni, hanno l’ironica brutalità di satiri e fauni; sono figure a metà, un poco più umane che animali, o forse viceversa. E le mezze frasi che le accompagnano, oniriche, hanno l’irrazionale chiarezza dei responsi pitici. Le forme impetuose delle donne (che tanto ricordano le compagne dei minotauri picassiani) s’innestano nel culto ancestrale della
megale meter ed evocano le statuette di antiche divinità femminili.
Una concessione al mito è, in fin dei conti, anche la performance cristologica che Luna ha tenuto in occasione dell’inaugurazione: la rievocazione di un’Ultima Cena spezzata in due ambienti, con sei apostoli donna nel primo e sei apostoli uomo nell’altro, ricomposti da un collegamento video.