A prima vista, il lavoro esposto alla Galleria Sonia Rosso è una semplice esposizione di serie fotografiche, vasti panorami desertici presi al tramonto, nella luce soffusa tra il blu e il rosso del vespro. Non si tratta però di quadri romantici o di raffigurazioni kitsch; traspare nella vastità di queste foto un senso di trapasso, di attesa, un qualcosa d’indefinito.
I lavori di
Inaki Bonillas (Città del Messico, 1981) si muovono infatti su una linea sottile, fatta di piccoli spostamenti quasi impercettibili, come nei nove fogli di
White lighting (2002) esposti nella collezione Jumex di Città del Messico, in cui l’artista cercava di mappare con la sua macchina fotografica le diverse varietà di tono assunte da un muro bianco esposto a luci neutre di diverse intensità.
Il lavoro in questione,
Ya no, todavia no (2009), vuole invece raffigurare il momento di passaggio tra il giorno e la notte, l’istante in cui il buio non è ancora giunto, ma in cui il Sole è già tramontato. È quasi come se dovessimo dimenticarci delle parole che esprimono e codificano questo momento del giorno, il crepuscolo, per retrocedere a uno stato di stupore iniziale, di spavento e timore verso l’indefinito.
L’operazione di Bonillas non è però solamente un lavoro di gusto atmosferico; dopo la mostra a Barcellona, presso la galleria Projecte SD nel 2008, sul periodo trascorso dal nonno in un ranch del Wyoming, non è possibile non ammantare questo progetto anche di un amaro sapore sociale. Il paesaggio lunare accompagna l’osservatore verso una frontiera lontana, di là da venire, lasciando un senso d’insicurezza, come l’essere sperduti alla ricerca disperata di un confine da varcare, in balia delle intemperie.
Con la sua estetica quasi archivistica, Bonillas risulta fortemente legato alla scena internazionale, riproponendo quel gusto per il meticoloso e per le atmosfere notturne e sognanti che è stato importato di recente in Italia dalle grandi esposizioni di Birnbaum.
Bisogna riconoscere che il successo di Bonillas va tributato soprattutto all’interesse e all’attenzione che ha riscontrato presso illustri curatori internazionali, Obrist in testa, con cui ha lavorato proprio sul territorio della sua città, in uno dei luoghi simbolo del modernismo sudamericano, la casa Barragan. In quell’occasione, l’artista ha presentato una riflessione sui resti del vivace modernismo locale, quel movimento che ha posto le prime basi per la creazione della grande Città del Messico contemporanea, indiscutibilmente uno dei poli principali per le riflessioni sull’arte contemporanea.
Inaki Bonillas è infatti solo la punta di un sistema ampio e complesso che, negli ultimi anni, ha portato la città sull’altipiano a divenire centro di attrazione per artisti di tutto il mondo, e in cui gallerie, collezionisti e urbanisti fanno a gara con New York e San Paolo.
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Non c'è niente da fare. Per quanto il lavoro sia intrigante dopo un primo impatto. Subito dopo si capisce che l'artista sudamericano addomestica sensibilità già consolidate infarcendole di piacevole artigianato e di origini terzomondiste. Per chi non si può permettere Darren Almond e si eccita pensando al gradiente esotico di città del messico.