Un’altra
Rivoli è possibile? Forse lo scopo non era proprio questo, ma quando in
Piemonte ci si mettono di mezzo i castelli la domanda, per così dire, nasce
spontanea. E così Rivalta, col suo piccolo e articolato maniero, da “rifunzionalizzare”
dopo l’acquisizione da parte del Comune nel 1996, prova timidamente a dire la
sua. Con una di quelle mostre non presuntuose, chiare e semplici, che però si
fanno guardare, e forse ricordare.
Tema
ispirato al
genius loci Honoré de Balzac, qui transitato nel 1836 (e partìtone non senza aver
dato alla luce un racconto,
Le cheval de Saint Martin), e alla sua
Commedia Umana. Libro epico, infinito,
espressione di uno sguardo “elastico”, cui rende omaggio l’installazione degli
Afterall
che,
circoscrivendo la prospettiva sul parco attraverso il gioco ottico
concavo-convesso, diventa emblematica dell’avvolgente microcosmo del
romanziere.
Le
jeux sont faits per
Maura Banfo,
la quale nella bella sequenza di dodici foto accosta mani devote a mani
profane, tra rosari e roulette: ricerca del miracolo in entrambi i casi, e in
entrambi i casi gioco d’azzardo, scommessa su un’aleatoria felicità.
Mariangela
Levita cerca
invece di attualizzare l’
opus dello scrittore francese raggruppandolo in quattro moduli
cromatici: un tappeto rosa (frivolezza), argento (riflessione), nero (caducità)
e oro (lusso), ottenuto ridipingendo le copertine di 96 “Vogue”, effimera
bibbia della contemporaneità.
Del
resto, i grandi classici trovano sempre una loro ragion d’essere meta-temporale
e trasversale: sicché
Stanislao Di Giugno rivitalizza
raw material per esemplificare il tormento
creativo al centro del
Capolavoro sconosciuto, amato da
Cézanne e
Picasso.
Altre
due riflessioni sul
contesto. Da un lato
Perino & Vele – gli unici ad aprire una
parentesi non
site specifica -, riproponendo i manifesti realizzati per la personale
da Alfonso Artiaco la scorsa primavera, riportano gli innumerevoli attori
balzachiani sul chiassoso palcoscenico della strada. Dall’altro,
Filippo
Centenari pavesa
la piccola cappella con un umile bucato, adeguato fondale di brevi “clip”
girate
in loco:
atmosfera domestica e familiare, palpitante di vita sussurrata.
Più
tosto l’approccio di
Domenico Antonio Mancini, che legge il territorio
soprattutto come parte di una “cintura” torinese non più alacre avamposto del
Nord industrializzato: il lancio della monetina nel pozzo in cortile non
esaudisce desideri, ma fa partire a canone le “declamazioni” di lettere di
licenziamento.
Palma
dell’impatto ambientale all’intervento di
Paolo Grassino, che nel torrione affronta
l’affresco trecentesco del Crocifisso con il suo serafico androgino di cemento
costellato di lampadine. Potente per watt, collocazione e senso, la scultura
interpreta alla lettera un’espressione idiomatica piemontese – “
Quando il
lavoro entra dentro”
– tipica delle fatiche manuali, snellendo però la ruvidezza del mestiere con
un’abbacinante epifania binaria: chi illumina chi? E la commedia, trasformata
in tragedia, vola verso l’elegia.