09 febbraio 2012

Il quarto potere visto con gli occhi dell’arte

 
Alla fondazione Sandretto Re Rebaudengo si è appena inaugurata una mostra che fa il punto sul rapporto tra arte e media. Grandi installazioni e imponenti fotografie interrogano questa relazione pericolosa, con Feldmann, Hirschorn, Demand e altri. Dove un ruolo importante lo giocano le parole, ma soprattutto le immagini. Quasi un patrimonio visivo condiviso dove a volte gli artisti imitano gli operatori dei media, subordinando il loro pensiero critico. Ma [di Ludovico Pratesi]

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In Italia non è frequente che le istituzioni preposte all’arte contemporanea propongano mostre incentrate su temi di stretta attualità, e da questo punto di vista la fondazione Sandretto Re Rebaudengo è stata senz’altro una felice e dinamica eccezione. Dopo coraggiosi e pioneristici focus dedicati all’arte dell’hic et nunc in aree geografiche come l’Italia con Exit (2002) seguita da 21×21, (2010), l’India (Subcontingente 2006), l’Estremo Oriente con Alllooksame (2006) e più recentemente, la Russia con Modernikon (2011), ora la fondazione punta su una mostra dedicata ad un tema scottante come la relazione tra arte e media con Press Play, L’arte e i mezzi di informazione, curata da Irene Calderoni. L’iniziativa si caratterizza come un percorso visivo e concettuale incentrato sulle opere di sedici artisti internazionali di diverse generazioni, di cui la maggior parte provenienti dalla collezione Sandretto Re Rebaudengo, a riprova dell’importanza di avere una collezione come risorsa cui attingere specie in momenti critici come l’attuale.

«L’arte ci insegna a guardare e a leggere meglio il nostro tempo», dichiara Patrizia Sandretto nel magazine che accompagna la mostra, chiaro e leggibile, e Calderoni aggiunge «l’arte è uno strumento critico, capace di analizzare il ruolo politico e sociale delle immagini nel costruire la consapevolezza personale e collettiva della realtà».

Una consapevolezza che appare come il tema centrale dell’intera mostra, costruita dalla curatrice proprio sulla complessità dei dispositivi utilizzati dagli artisti per rendere più verosimile possibile il passaggio tra la realtà e la sua interpretazione attraverso i media. Il più efficace sembra essere l’archiviazione dei dati, intesa in senso scientifico nell’opera 9/12 Front Page di Hans Peter Feldmann, composta da una serie di prime pagine dei quotidiani di tutto il mondo pubblicati il 12 settembre 2001, all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle.

Ma anche Thomas Hirschorn dà un valido contributo con Ingrowth, bacheca museale che contiene manichini femminili che mostrano ai loro piedi immagini di orrori e atrocità belliche, vicina alla sensibilità post human di Kessler’s Circus, l’eccessivamente scenografica installazione di Jon Kessler concepita come una grande tenda da campo militare trasformata in un laboratorio dell’orrore.

Più classiche nella loro perfezione formale appaiono Studio di Thomas Demand, la riproduzione in cartoncino di uno studio televisivo tedesco, o Times Square New York di Thomas Struth, che affida alla spettacolarità della fotografia la visione della Grande Mela come capitale dei media mondiali, senza però suggerire alcuna lettura critica della stessa. Le opere di due star dell’interpretazione del cinema quale territorio espressivo da reinterpretare, come Pierre Huyge o Steve McQueen (balzato agli onori delle cronache con l’assai deludente Shame) rappresentati in mostra rispettivamente dai video The Third Memory e Gravesend, appaiono legati a ricerche forse superate, con opere troppo condizionate dal rispetto di un’estetica formale che risulta non necessaria e quasi artificiale. A differenza di chi rielabora sapientemente materiali d’archivio come il gruppo Black Audio Film Collective con il suo attualissimo Handsworth Songs, resoconto sulla rivolta della comunità nera di Billingham nel 1985 o registra, come Bani Abidi, le differenti modalità di annuncio di un possibile conflitto tra India e Pakistan attraverso i rispettivi canali televisivi nazionali (The News).

Una lettura che ritroviamo in Democracies di Artur Zmijewski, che filma in diretta venti manifestazioni pubbliche nel mondo legate ad un’idea di partecipazione democratica rivelata in tutta la sua ambiguità, mentre con un linguaggio più poetico Fiona Tan racconta le catastrofi naturali nel loro svolgimento, con News from the Near Future. Decisamente di rilievo le opere degli unici due artisti italiani Alessandro Quaranta e Alessandro Gagliardo: con il video The handy holes watchers parade Quaranta ha sottolineato il ruolo delle riprese effettuate con i cellulari nella primavera araba, mentre Palinsesto, nota complessa è un’installazione a parete di Gagliardo che documenta la società italiana dell’ultimo decennio attraverso l’archivio di immagini di una tv privata siciliana, con uno sguardo ironico e disincantato ma del tutto consapevole, che lascia ben sperare sui futuri esiti della ricerca di questo giovane talento, arrivato alla fondazione Sandretto dopo un’eccellente personale all’Arge Kunst Museum di Bolzano.

 
ludovico pratesi
 

[exibart]

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