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Quattro chiacchiere con… Luigi Mainolfi
torino
Intervista a cura di Bruno Panebarco
...sarebbe bello trovare la galleria ideale, anche se è difficile. Di gallerie ce ne sono tante, ma la maggiorparte sono botteghe di mercanti... ecco uno dei concetti espressi da Luigi Mainolfi in mezz'ora di amichevole ed informale chiacchierata...
...sarebbe bello trovare la galleria ideale, anche se è difficile. Di gallerie ce ne sono tante, ma la maggiorparte sono botteghe di mercanti... ecco uno dei concetti espressi da Luigi Mainolfi in mezz'ora di amichevole ed informale chiacchierata...
di redazione
Sei nel mondo dell’arte da molti anni. Cosa è cambiato dal tuo esordio?
In realtà è cambiato poco. Certo da giovane hai più miti, più sogni, credi che il mondo dell’arte sia facilmente praticabile. Pensi all’arte come ad un qualsiasi lavoro e in fondo è così. Quello dell’arte è un sistema e per accedervi devi conoscerne il linguaggio, praticarlo, in poche parole devi lavorare. L’artista ad un certo punto smette di essere un comunicatore sociale e si trasforma nel suo lavoro. Non ci sono mai state regole specifiche. E’ chiaro che potendo operare più vicino alle tue concezioni, fai meno sacrificio, vivi meglio. L’artista è un solitario con la presunzione di fare qualcosa di diverso dagli altri. Uno che alla fine perde il contatto con il mondo esterno, con le strategie sociali. Allora l’ideale sarebbe trovare dei partner, un gallerista ad esempio, che ti faccia da tramite.
Ma il sistema delle gallerie non ti condiziona, o in ogni caso, non c’è stato un momento in cui questo si è verificato?
Chiaramente si, ma molto dopo il mio esordio. All’inizio è quasi un sogno trovare una galleria, nel senso di qualcuno che creda in te e ti sostenga. Ci sono alcuni galleristi a Torino, come Tucci Russo, con i quali ancora adesso, prima di fare una mostra, mi consulto. Potrei anche non farlo, ma è una questione di fiducia e stima reciproca.
Capisco. Io comunque intendevo domandarti se ci sono galleristi che ti chiedono di esporre certi lavori piuttosto che altri, con un fine chiaramente di genere commerciale…
Si, certo, in quel senso ci provano tutti. Conosco artisti che si fanno infinocchiare più facilmente per via della loro indole troppo remissiva. Ci sono galleristi o mercanti che cercano di fare i furbi. A me è capitato che alcuni di loro, anni fa non mi prendessero neppure in considerazione. Adesso che tutto funziona più o meno bene, mi fanno la corte. Diciamo che qualche sassolino dalla scarpa me lo sto togliendo. E’ importante avere una galleria che ti sostiene e questo, alla fine ti porta anche ad avere un mercato. Guarda i giovani artisti d’oggi. Anche se non fanno un lavoro d’enorme qualità, se hanno una galleria a sostenerli è quasi automatico che alla fine emergano. Per gli altri le possibilità sono quasi inesistenti. Anche il critico che segue il tuo lavoro può essere importante come la galleria. Oggi però, questa categoria, ha perso molto della sua componente idealistica. C’è stato un crollo delle ideologie.
per quello che è la mia esperienza personale, sia d’artista che di promotore di eventi culturali, mi è sembrato di intuire che molti critici non facciano grandi sforzi per capire e vedere realmente ciò che avviene nel mondo dell’arte ma si limitino a seguire alcuni artisti o ad andare dove possono avere un tornaconto…
Sembra che oggi tutti si aspettino che siano gli altri a fare la prima mossa. Il critico, prima di parlare di un artista aspetta che abbia delle belle mostre alle spalle mentre il gallerista vorrebbe proporre esclusivamente artisti sostenuti dai critici, così si crea un immobilismo che logora e non favorisce gli artisti stessi, mentre prima era diverso. Io ho vissuto il ’68 e in quel periodo, come negli anni ’70, era più facile trovare qualcuno che condividesse le tue idee, sia tra i critici che tra i galleristi. E poi c’erano molti compagni d’avventura.
Quindi si può affermare che in realtà qualcosa è cambiato?
Certo. La società cambia, come cambiano i rapporti sociali, i comportamenti. Ai miei tempi, sposare una causa era quasi un must. Imporre la scultura, ad esempio, è stata una fatica enorme perché in quel periodo c’era una concettualità dilagante ed eri quasi obbligato a partire da quello. Ci sono stati scontri infuocati, polemiche tra gli artisti, tra le varie correnti di pensiero. Oggi questo non avviene. E’ più facile cominciare, senza la necessità di appartenere ad un gruppo, ad una corrente. Quello che non cambia è che in ogni caso devi fare dei grossi sacrifici.
Il tuo rapporto con le istituzioni invece, com’è stato? Hai ricevuto aiuti o qualche genere di sostegno?
Adesso si, qualche sostegno è più facile ottenerlo, ma in passato non è mai successo. In Italia non è mai esistita una cultura a “sostegno all’arte”, se così si può dire, da parte delle istituzioni. Guarda la GAM di Torino. Sono pochissimi anni che funziona ma è stata chiusa per decenni. In Germania, negli Stati Uniti, le cose vanno diversamente. Nel nostro paese, quasi tutto si muove grazie ai privati. Io personalmente devo ringraziare alcuni galleristi che hanno creduto in me e mi hanno sostenuto. Non certo le istituzioni.
Per ciò che riguarda la tua ricerca artistica, di cosa ti stai occupando attualmente?
Il mio è una sorta di lavoro in progressione. Non appartengo a quella schiera d’artisti che fanno una ricerca continua su un unico argomento. Ho un campo d’azione molto vasto. M’interessa la materia, i materiali, così spazio dalla terracotta al ferro, dal bronzo alla pietra. Ho iniziato con la terracotta che, malgrado agli esordi mi abbia dato molto successo, ad un certo punto, mi è parsa limitante. Forse perché ho una formazione culturale che parte dalla contestazione, ho sempre cercato di superare i limiti e di spaziare il più possibile. Per capirci, credo che nell’arte, il problema non sia inventare qualcosa ma arrivare a ciò che si prefigge l’arte stessa: quella possibilità infinita d’apertura a…puntini, puntini, puntini.
Ti interessi del lavoro di altri artisti?
Sono per natura curioso. Mi piacerebbe, utopicamente, vivere in un mondo dove sono tutti artisti. Quelli che si esprimono, in qualsiasi modo lo facciano, sono i migliori della società. Mi piace conoscere altri artisti, coetanei o anche più giovani di me, compresi quelli che apparentemente fanno cose mediocri. So benissimo che è l’esperienza a farti crescere. Credo in questo e rispetto il punto di vista di chiunque. E’ l’ipocrisia, la finzione dell’arte che non m’interessa.
L’intervista si è svolta nello studio di Luigi Mainolfi, a Torino, il 9 Novembre 2000.
[exibart]
Per me il concetto principale è “I compagni d’avventura del ’68”, è lì la chiave del mutamento che ha registrato Mainolfi. Va bene prendersela con i critici (che oggi scelgono di fare le rock star), va bene con le gallerie (che dettano le regole del mercato), eppure ci sono responsabilità anche tra gli artisti. Decidendo di chiudere con la stagione dei gruppi che portavano avanti esperienze collettive di un certo respiro e non solo occasionali, si sono messi alla mercé di tutti. Io aggiungerei ai colpevoli del nuovo modo di vivere il mondo dell’arte anche i giornalisti con gli occhi bendati e il grande pubblico dalla scarsa capacità critica. Per non dire degli enti pubblici, luoghi di consacrazione postuma. Stando che la questione della mercificazione dell’arte è da più parti ormai acquisita e superata, occorre non lamentarsi o rimpiangere i bei tempi andati (che ebbero anche i loro lati negativi, specie nell’epoca suindicata) ma lavorare, confrontarsi, discutere, progettare insieme nuove modi di promuovere l’arte. Exibart, nel suo piccolo, sta tentando di farlo anzi, per il futuro mi aspetto ancor più critica (militante), quella di Valentina, per intenderci.