Un percorso dal sapore iniziatico che si snoda attraverso un ambiente labirintico. Un viaggio alla ricerca della coscienza perduta e poi ritrovata. Per essere poi smarrita e ancora ritrovata un’infinità di volte. Un intrìco di sensazioni che, sedimentandosi nel tempo, deposita sul fondo della memoria il residuo delle azioni alle quali si è poco prima assistito. Tutto questo è Il pentito – Lavoro in quattro strati più un monumento, performance molto poco “agìta” dal punto di vista fisico perché basata in primo luogo sul potere evocativo della mente. E che deve il proprio fascino all’uso combinato di sculture, installazioni, videoproiezioni, con l’aggiunta di una presenza umana concreta. Un lavoro che mette ben in luce la filosofia di Enrico Gaido e Alessandra Lappano, fondatori di Portage che, da spazio d’autoproduzione, si accinge a diventare un punto di riferimento per l’esposizione delle arti performative, anche di altri artisti. I due, animati dal comune desiderio di fare del teatro di ricerca, studiano nuovi modelli espressivi che gli consentano di uscire dalle tradizionali definizioni, secondo le quali l’azione teatrale è tenuta ad esaurirsi in un tempo e in un luogo ben definiti.
Il loro intento, secondo l’interpretazione che ne dà il curatore Luca Vona, è quello di realizzare un “residuato performativo, qualcosa capace di sopravvivere alla performance, non come pura documentazione o elemento vivisezionato, ma come realtà in sé compiuta, parte contenente il tutto”. Ne è un esempio riuscito proprio questo Pentito dove, di stazione in stazione, come in una moderna via crucis, si assiste impotenti alla sofferenza di un uomo alla disperata ricerca della verità. Di qualcosa di assoluto che però spaventa e paralizza, impedendo di continuare il viaggio. Un ostacolo che, nella prima “stanza”, ha l’aspetto di un enorme piramide stratificata. Un tutt’uno, pieno e incombente sulla minuscola scultura che raffigura il protagonista. Nella seconda è invece l’immagine virtuale di un abisso, un immenso vuoto pronto a sconvolgere ancora una volta l’uomo. Nella terza risuona un dialogo serrato. Non è altro che la propria coscienza la quale, ora in veste di giudice ora d’imputato, s’interroga incessantemente. Finché, nella quarta e ultima stanza, si materializza un corpo in carne ed ossa: la tensione accumulata raggiunge finalmente il suo apice. Fino a sciogliersi sulle note jazz che accompagnano il movimento perentorio di una “scultura-monumento”.
Su tutto agisce un gioco sapiente di luci che, squarciando l’oscurità, rivela un sistema di didascalie dai testi laconici e lapidari. Tali da spezzare le ultime resistenze nei confronti di una verità che si scopre frammentaria e relativa.
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