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Che cos’è il mito? Viene subito in mente Roland Barthes “il mito è una parola”; un discorso ambiguo.
Marcella Vanzo ha costruito il suo discorso ricucendo, destrutturando e ricomponendo storie leggendarie insieme a quella anonime della cronaca. Il suo “Cappuccetto Osso” ideato per Cristina Abati e Carlo Salvador dei Gogmagog è stato rappresentato giovedì 2 dicembre a Prato alle Officine Giovani dopo essere stato mostrato la primavera scorsa al Teatro Studio di Scandicci.
Connubio quello tra Vanzo e la compagnia fiorentina che dura da qualche anno; già nel 2014 insieme avevano portato in scena “Quei due” tragicomica trasposizione dell’ironico Diario di Adamo ed Eva di Mark Twain.
In questo Cappuccetto disossato, i toni si sono fatti scuri.
Dalle pieghe della favola di Perrault, ormai narrata solo attraverso versioni edulcorate per per non turbare le notti dei millennials, sono state estratte le ombre più profonde. La favola è squadernata, l’angoscia imbratta le pagine e le parole. C’è il lupo che sotto il pelo arruffato nasconde il Robert De Niro di Taxi Driver, un disperato che come individuo non esiste se non nel rapporto violento e masochista con Cappuccetto di rosa poco vestita. Il lupo la insegue cerca di trattenerla di intrappolarla, ripetendo le frasi di De Niro senza che queste significhino qualcosa. Cappuccetto è intrappolata dal suo ruolo. Il lupo non può fare più paura. La paura esiste ma non è reificabile neppure da una pistola; non ha più importanza se questa spari oppure no. Il mito è svelato, rarefatto ogni riferimento semantico.
Si confondono i ruoli non ci sono buoni né cattivi, non vi è modo di nascondersi. Tutto è in scena e ridotto all’osso viene mostrato in maniera essenziale. Non si può parlare di drammaturgia, il teatro, che nel precedente lavoro ancora era presente, è svanito.
La relazione di coppia violenta, masochista e incestuosa prende corpo attraverso la performance studiata in ogni singolo elemento. Immagini definite e iconiche si susseguono davanti agli occhi del pubblico, dove le figure del lupo e della bambina sono affidate alla irrequietezza di Salvador e alla fisicità evocativa di Abati. Lo scontro di due personaggi che non possono più celare le proprie miserie, dove si palesa in tutto il suo grigiore la crudele banalità del quotidiano. Lo spazio della scena è definito con una scatola dalle pareti rosse, con pochi punti luce che scolpiscono le figure; tutto è nitido niente è celato ma neppure dichiarato. Così l’incapacità di stabilire una comunicazione crea tensione che mai prorompe nella violenza irruenta dell’azione, anche la catarsi è negata. Niente è fine a sé stesso, i pochi elementi presenti saturano l’immagine, i colori decisi investono con violenza la nostra retina.
Il lavoro di Marcella Vanzo nasce da un connubio, fertile, di immaginari stratificati, nutriti di memorie infantili, ancestrali e cronachistiche. L’intreccio audace, segue la necessità personale dell’artista di confrontarsi in primis con i due attori. A loro è affidato il difficile compito di impersonare una narrazione tridimensionale dove gli elementi si scontrano su tutti i piani anche a discapito della chiarezza; perché in fondo è la chiarezza che manca nelle faccende umane, in ogni tipo di rapporto di coppia – anche in quello tra performers e pubblico. Marcella Vanzo in “Cappuccetto Osso” gioca con tutti questi elementi. Un esperimento coraggioso che meriterebbe più occasioni di essere visto.
Maria Antonia Rinaldi
Il 2 dicembre 2015
OFFICINA GIOVANI PRATO
piazza dei Macelli, 4, Prato
Info: 0574 183 6753