Francesca Woodman (Denver, 1958 – New York, 1981) era una fotografa
statunitense, nata da una coppia di artisti. Fra il 1977 a 1978 visse a Roma
per frequentare i corsi europei della Rhode Island School of Design. Qui
studiò, lavorò e conobbe diversi artisti.
Presso il Centro di arte contemporanea di Santa Maria
della Scala sono ora esposte 114 fotografie, quasi tutti autoscatti in bianco e
nero, in gran parte di piccole dimensioni. In mostra vi sono anche alcuni
video. Le sale, più che allestite, sono stipate e non danno abbastanza spazio
alla
domanda di vuoto e di tempo.
L’opera di Francesca Woodman sfugge a ogni
categorizzazione dal fiato corto. È un respiro di magia, illusione, incanto,
più qualcosa d’altro d’inesprimibile e dilatato, su cui s’inciampa. Una ricerca
di grande coerenza strutturale, un’ostinazione adolescenziale ed energetica
verso il mezzo fotografico, contro cui Woodman riversa tutta se stessa per otto
anni. Un dis-orientamento preciso, che non si sperpera mai, grazie a un
indirizzo perfetto: il suo punto di vista.
Da una parte il buco di un occhio che chiama. Dall’altra
parte la fotografa che risponde sempre,
disponibile e impegnata nei suoi esercizi di
apparizione e sparizione dentro e fuori lo spazio reale. Tra i due poli
dialettici cade l’immagine, la prova di esistenza/resistenza, fissata sopra un
cartoncino nero e circoscritta da rare intrusioni didascaliche, che sviano la
visione verso ciò che volontariamente viene escluso dal bordo.
Complice della scomparsa e consapevole dell’autoinganno,
Francesca Woodman si insegue tutta la vita, in uno spazio che è
altrove. Controlla il suo sguardo come
un’anoressica del visibile. Mangia tutto con gli occhi (se stessa, le cose, gli
ambienti) e lo rigetta fuori attraverso l’immagine fotografica, dopo un
soggettivo restauro di senso, mentre racconta di disordinate geometrie
interiori.
“La mia è una vita d’acrobata tra la morte e la poesia,
sospesa, trattenuta da un filo”, scriveva Mireille Havet, poetessa francese. Già a
tredici anni Francesca Woodman si sposa al mezzo fotografico aggrappata a un
filo, che nel suo primo autoscatto compare davanti a tutto.
La fotografia colleziona prove di vita e pezzi di corpo,
ma sovente si priva del volto dell’artista. Prove su prove, speranze e paure
vicine alle cose semplici. Sfasature (tra reale e percepito) trasferite, grazie
alla decisione di uno scatto, su conferme cartacee, rese indipendenti dal
soggetto. Indivisibili (lei, il soggetto, e il mezzo) vagano e cercano
riferimenti
intorno
alla luce.
Insieme cercano di staccare l’ombra da terra, o staccano
il corpo da terra per lasciare un’ombra scura sotto ai piedi, meno precaria
delle altre. Si aggrappano alla porta, sopra il vuoto di un passaggio chiuso o
inseguono un’anima solida accanto alla breve e confortante immobilità degli
oggetti. Giocano a nascondino tra l’inganno e il riconoscimento di uno
specchio, o in altri luoghi di reciproca inconsistenza.
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