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18
dicembre 2009
fino al 10.I.2010 Lena Liv Prato, Museo Pecci
toscana
Eventi dimenticati, volti senza testimoni. A una visione d'insieme, gli oggetti bianchi appaiono come minimi, eppur presenti, raggi di luna. Quel debole chiarore sta a indicare una possibile fine del lutto...
“La grande Storia non è affar nostro, la grande Storia
si farà comunque”:
così commenta Haim Baharier, ebreo studioso di ermeneutica – a suo agio fra
Talmud, Kabbalah e Bibbia – nel video di presentazione alla prima mostra
personale di Lena Liv (San Pietroburgo, 1952; vive a New York, Tel Aviv e Pietrasanta, Lucca)
in un museo italiano.
Il nucleo essenziale dell’artista russo-israeliana, la cui
origine di per sé è indicativa, riguarda proprio la memoria: con più
precisione, e contrariamente al determinismo che la citazione d’inizio potrebbe
far supporre, attiene alla misteriosa persistenza di una carica umana oltre il
trascorrere degli eventi.
Alcuni esempi concreti. Un’umile lampada da soffitto,
vecchia di decenni, mantiene in sé il calore di chi la usò. Una fotografia
scattata chissà da chi e chissà quando è la traccia di un percorso esistenziale
che non potrà ripetersi identico. In generale, ogni oggetto “vissuto” può
operare come potenziale transfert di emozioni, per tramite di un processo che,
seppur con declinazione diversa, è ben noto (si pensi alle impressioni tra
sublime e malinconico suscitate dalle rovine dell’antichità).
Dunque, la scelta della Liv di riferirsi a frammenti
anonimi è il risultato di una precisa riflessione circa le dinamiche della
dimenticanza: per costruire la storia e derivarne un legame logico tra il prima
e l’ora, normalmente destiniamo all’oblio ogni particolarità, tutto quanto non
s’incastri nell’intenzionalità degli scritti. In tale contesto, l’Hekhalòt ha un significato pertinente: il
palazzo divino della cultura ebraica, la cui ricchezza è fatta di luce e
riflessi, assurge a simbolo dell’incerto confine tra visibile e invisibile,
reale e inesistente.
Composta di circa 40 evocazioni, l’esposizione di Lena Liv
è un “notturno” visivo ispirato dall’idea della sofferenza. Il punto d’inizio,
oppure solo quello più evidente, è certamente l’olocausto, ma la conclusione
riguarda la condizione umana generale. Attraverso tecniche particolari – come
la riproduzione pittorica d’immagini antiche, alternativamente affiancate da
materializzazioni in carta degli oggetti presenti nell’inquadratura stessa – si
consuma il tentativo, dolce e disperato insieme, di dare una nuova consistenza
alle memorie perdute.
Il nero dominante, a ricoprire senza distinzione aerei da
guerra o giochi d’infanzia, e la successione d’individui ormai privati
dell’identità, sono elementi che avanzano un interrogativo fondamentale: ovvero
se gli uomini sapranno mai rinunciare all’inutilità del male. La sensibilità
dell’artista nel modo di trattare gli oggetti e le loro ombre, se anche non
equivale a una risposta positiva, almeno legittima la speranza.
si farà comunque”:
così commenta Haim Baharier, ebreo studioso di ermeneutica – a suo agio fra
Talmud, Kabbalah e Bibbia – nel video di presentazione alla prima mostra
personale di Lena Liv (San Pietroburgo, 1952; vive a New York, Tel Aviv e Pietrasanta, Lucca)
in un museo italiano.
Il nucleo essenziale dell’artista russo-israeliana, la cui
origine di per sé è indicativa, riguarda proprio la memoria: con più
precisione, e contrariamente al determinismo che la citazione d’inizio potrebbe
far supporre, attiene alla misteriosa persistenza di una carica umana oltre il
trascorrere degli eventi.
Alcuni esempi concreti. Un’umile lampada da soffitto,
vecchia di decenni, mantiene in sé il calore di chi la usò. Una fotografia
scattata chissà da chi e chissà quando è la traccia di un percorso esistenziale
che non potrà ripetersi identico. In generale, ogni oggetto “vissuto” può
operare come potenziale transfert di emozioni, per tramite di un processo che,
seppur con declinazione diversa, è ben noto (si pensi alle impressioni tra
sublime e malinconico suscitate dalle rovine dell’antichità).
Dunque, la scelta della Liv di riferirsi a frammenti
anonimi è il risultato di una precisa riflessione circa le dinamiche della
dimenticanza: per costruire la storia e derivarne un legame logico tra il prima
e l’ora, normalmente destiniamo all’oblio ogni particolarità, tutto quanto non
s’incastri nell’intenzionalità degli scritti. In tale contesto, l’Hekhalòt ha un significato pertinente: il
palazzo divino della cultura ebraica, la cui ricchezza è fatta di luce e
riflessi, assurge a simbolo dell’incerto confine tra visibile e invisibile,
reale e inesistente.
Composta di circa 40 evocazioni, l’esposizione di Lena Liv
è un “notturno” visivo ispirato dall’idea della sofferenza. Il punto d’inizio,
oppure solo quello più evidente, è certamente l’olocausto, ma la conclusione
riguarda la condizione umana generale. Attraverso tecniche particolari – come
la riproduzione pittorica d’immagini antiche, alternativamente affiancate da
materializzazioni in carta degli oggetti presenti nell’inquadratura stessa – si
consuma il tentativo, dolce e disperato insieme, di dare una nuova consistenza
alle memorie perdute.
Il nero dominante, a ricoprire senza distinzione aerei da
guerra o giochi d’infanzia, e la successione d’individui ormai privati
dell’identità, sono elementi che avanzano un interrogativo fondamentale: ovvero
se gli uomini sapranno mai rinunciare all’inutilità del male. La sensibilità
dell’artista nel modo di trattare gli oggetti e le loro ombre, se anche non
equivale a una risposta positiva, almeno legittima la speranza.
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a cura di Marco Bazzini
C.Arte – Centro per
l’Arte Contemporanea Luigi Pecci – Spazio Collezione
Viale della Repubblica, 277 – 59100 Prato
Orario: da mercoledì a lunedì ore 10-19
Ingresso libero
Catalogo
Centro Sperimentale di Arte Contemporanea
Info: tel. +39
05745317; fax +39 0574531901; www.centropecci.it
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