Lo scrigno di una bellezza considerata universale: ai lati del corridoio, il sofferto destino umano dei
Prigioni, sgrezzati a fatica dalla pietra, più avanti il colossale
David dallo sguardo intenso e dalle enormi mani. La fiorentina Galleria dell’Accademia custodisce alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte occidentale, quindi detiene una primaria responsabilità culturale. Purtroppo, a questi due fattori non è corrisposta nel tempo un’idonea qualità d’allestimento: a esclusione della Galleria e della Tribuna, nei restanti spazi si ravvisa la necessità di una migliore disposizione delle opere, mentre l’illuminazione artificiale non risulta in alcun caso soddisfacente.
Discorso molto più complesso e delicato – ma qui inerente – è quanto riguarda la generale ri-qualificazione dell’istituzione museo; tornano alla mente le riflessioni che Francis Haskell sviluppava a partire dalla storia degli Uffizi. Ciò che si può azzardare, nell’intricato coacervo di valutazioni e proposte, è che ogni modalità risolutiva dovrebbe considerare la necessità di un dialogo fattivo tra epoche diverse.
Appunto come sta avvenendo con
La Perfezione nella Forma, coraggiosa ipotesi relazionale fra arte del passato e del presente.
Un’esposizione, questa, che trae forza dalla particolare esigenza che nel tempo ha accomunato tanti artisti e che, nello specifico, avvicina
Michelangelo a
Robert Mapplethorpe (New York, 1946 – Boston, 1989): l’assolutezza formale, il valore che consente la definizione della classicità.
Secoli di distanza colmati da un percorso in cinque sezioni, attraverso un’appropriata curatela e un rigoroso impianto scientifico. Vi si trovano, oltre i più semplici accostamenti – l’accentuata muscolatura maschile, la culturista Lisa Lyon simile a un’amazzone michelangiolesca – aspetti imprevisti: ad esempio lo schizzo per il
Giudizio Universale datato 1534, che prova una condivisa poetica del frammento, la volontà del fotografo di relazionare la carne al marmo attraverso pose scultoree e accentuate costruzioni chiaroscurali, l’impostazione geometrica negli scatti di uno e nei disegni d’ingegneria militare dell’altro.
Il percorso quindi rivela un’analiticità consistente, che certo ha saputo giovarsi dell’ausilio della Mapplethorpe Foundation e dei consigli di Patti Smith (amica intima di Mapplethorpe). Appunto la maturità del progetto, che nell’accostamento delle due personalità ha dimostrato coraggio, rende inspiegabile un’evidente mancanza: la mostra non osa alcun riferimento alla produzione omoerotica, sadomaso, fetish di Mapplethorpe. Lecito? No, inaccettabile classificare quelle fotografie come un genere minore o come un errore entro un più vasto cammino di redenzione.
La sfida sarebbe stata grandiosa, e di conseguenza il risultato, se si fosse dimostrata la coerenza formale anche del vario repertorio di membri maschili. Un vero peccato, considerando che non sarebbe mancato neppure il collegamento: i nudi della Cappella Sistina, giudicati scabrosi dall’Inquisizione, e il modesto
Daniele da Volterra destinato a passare alla storia per aver ricoperto, a colpi di braghe, pudenda ovunque esibite.
Viene allora da pensare: che sia un classico occidentale anche il tabù?