La felicità non fa racconto, titolo narrativo dell’ultima personale di
Luca Bertolo (Milano, 1968; vive a Giustagnana, Lucca) nel luminoso SpazioA, è un eufemismo, considerato che lo stesso artista ammette di aver cercato di rappresentare in
Allegoria, la grande tela con cui si fa i conti, frontalmente, appena entrati, “
l’enorme perdita di rotta” attuale. Un barcone grigio dai toni metallici, su cui stazionano figure meste e assenti: chi indaffarato in occupazioni momentanee, chi in attesa di una svolta, un big bang che rimescoli vorticosamente le carte sul tavolo. La vela bianca è ripiegata su se stessa, schiacciata dalla cappa asfittica che sovrasta i naviganti.
Eppure Bertolo, alle prese con un “
momento di profondo pessimismo esistenziale”, spiega che in questo grande quadro storico sull’oggi non ha dimenticato d’inserire schegge di eruttiva speranza: le decine di macchie con cui ha sporcato lo sfondo sono latenti anticorpi destinati un giorno a esplodere, scuotendo le anime perse rifugiate tra le braccia di un leader dalla cresta punk; oppure la donna che dorme ai bordi del dipinto, con in braccio un bambino.
In linea d’aria, davanti all’enorme raffigurazione postmoderna, come antichi reperti in una teca di vetro spuntano tanti frammenti di terra persi da una scarpa ed esposti a mo’ di refurtiva (
Senza titolo): sono le tracce dei migranti che attraversano le frontiere illegalmente, i delicati frammenti d’identità degli invisibili che ritornano.
L’atmosfera cupa rimbalza nei tre piccoli quadri disseminati sulle pareti, variazioni sul tema accomunate dal medesimo titolo:
Carcere. Le celle, a tinte più o meno forti, richiamano piantine d’interni oscurate da un prepotente gesto fascista, tanto più liberticida quanto ricondotto alla dimensione intima della casa.
Ciò che appare smarrito non è mai perduto nello sguardo sul mondo – complesso, ma in potenza positivo – di Bertolo che, nel 1998, neodiplomato all’Accademia delle Belle Arti di Brera, si è trasferito a Berlino, intenzionato a vivere su di sé “
un grande momento storico”. Oggi l’artista, che lavora a ridosso delle aspre cave di marmo, ha esposto internazionalmente in gallerie pubbliche e private come il Kettle’s Yard di Cambridge, il Pecci di Prato, la Kunsthaus Tacheles di Berlino e la The Front Room Gallery di New York.
Fidati, qualcosa cambierà, sembra promettere lo
Smile alla fine del percorso, convincente proprio perché ottuso. Davanti a lui, la seconda grande tela
Senza titolo porta i colori puri e giocosi dell’infanzia. Sullo sfondo, ancora decine di macchie
in fieri: germi d’un prossimo, salvifico rivolgimento.