Unico appuntamento italiano, questo, che raccoglie in eredità parte dell’importante corpo espositivo della mostra organizzata congiuntamente dal Getty Museum di Los Angeles e dalla National Gallery of Canada di Ottawa. Un’occasione per osservare quelle che Wittkower definì “
speaking likeness”, effigi parlanti, e per riflettere sulla fortunata stagione secentesca del ritratto, attraverso l’inedito confronto tra capolavori scultorei di
Gian Lorenzo Bernini e dipinti dei massimi maestri del Seicento.
Il dialogo inatteso tra le due forme d’arte che, in via del tutto eccezionale, condividono le sale del Bargello rende immediatamente chiaro quanto il naturalismo caravaggesco e l’esercizio del ritratto pittorico nella Roma di Papa Urbano VIII abbiano giocato un ruolo decisivo nella sfida enunciata dallo stesso Bernini, “
far che un marmo sia colore, spirito e vita”. Le trentuno opere provenienti dalle più prestigiose collezioni internazionali testimoniano proprio questa volontà di estendere le capacità espressive della pittura al ritratto scolpito, genere da sempre considerato minore.
L’edizione fiorentina dell’evento si concentra soprattutto sugli esordi della produzione berniniana. L
a prima sezione, infatti, è un’attenta ricostruzione di una svolta stilistica: quella di un giovanissimo scultore che, gradualmente, abbandona la formalità della tradizione rinascimentale per avvicinarsi ai modi e alle forme dell’estetica “contemporanea”. Ecco allora che l’algida aurea commemorativa svanisce sempre più nella sincera verosimiglianza dei lineamenti, nello svelamento di un carattere. E così il ritratto scolpito si libera dalla funzione esclusiva di busto funebre e, alla stregua del ritratto su tela, diventa opera di rappresentanza commissionata per la galleria di palazzo.
Alla serialità di volti imperturbabili, trasfigurati dall’intento celebrativo, si sostituisce una rassegna personalissima di tipi umani del mondo ecclesiastico e nobiliare. L’effige in marmo, abbandonata la fissità del monito morale, rompe il soliloquio per intrattenere un nuovo discorso con l’osservatore. Quello stesso racconto psicologico narrato da pittori allora residenti nella Capitale, come
Diego Velázquez,
Antoon van Dyck e
Annibale Carracci.
Corrispondenze che si fanno sempre più profonde nella seconda sezione, intitolata al “ritratto parlante”. La scelta – filologicamente corretta e, al contempo, sorprendente –
di esporre precedenti pittorici, certamente ammirati da Bernini, consente di rintracciare analogie affatto casuali. Suggerimenti ingannevoli di vitalità e istantaneità delle pose lasciano le tele per restituire al candore del marmo la morbidezza e il colore della carne viva. E quando, come nel
Ritratto di Isabella Brant di
Rubens, l’artista è anche committente nel ritrarre la propria amata, il risultato è una viva sensualità.
Il sublime inganno è ancora lì, nello scambio di sguardi tra Bernini, nel suo
Autoritratto, e il busto di
Costanza Bonarelli, colta con la bocca schiusa nell’attimo di proferir parola.