Sebbene – o, forse, perché – l’ambientazione, considerata come una specie di “non luogo”, corrisponda alla memoria e il soggetto sia un io privo di definizione univoca, la più recente produzione di
Max Rohr (Bolzano, 1960; vive a Firenze) ha la sostanza di un’avventura.
In between ne è il titolo, unione di congiunzioni che esplicita la possibilità di considerare ogni immagine sia di per sé che in rapporto alle altre, ovvero l’evento e insieme la storia.
Così, queste grandi e chiare tele di vita trascorsa, sospese tra gaio naturalismo e malinconia estrema, della vita non ci rendono il senso – inteso come atto ultimo e sintetico della conoscenza – ma l’intero processo costitutivo del ricordo, il suo farsi per frammenti e relazioni. Lo scopo è ottenere una chiave interpretativa del passato e, conseguentemente per il suo derivargli, del presente. Un processo
in fieri, che trasforma il quadro in un laboratorio d’ipotesi e tentativi, narrazione non di ciò che
è stato ma di ciò che
potrebbe esser stato.
Quando per ragioni di ordine ci liberiamo di certi oggetti dimessi – disegni d’infanzia, libri non più interessanti, abiti d’altra taglia – l’impossibilità di tenere ogni cosa si collega all’immagine che abbiamo o che vorremmo di noi in quel momento, al nostro autoritratto. Ovvero, “riconoscersi” implica sempre una selezione spietata dei ricordi. È esattamente quanto viene realizzando Rohr nei suoi dipinti, e l’inquietudine sottesa a questa produzione matura, in cui l’autore s’interessa a sé, è connessa al sublime dell’arte, alla terribilità per cui l’arte, creando, distrugge.
I singoli elementi stilistici si specchiano, e si spiegano, sul filo d’acqua della fragile memoria. L’impianto audace di prospettive diverse e intersecantisi nega l’esclusività di un unico punto di fuga e la sua classica funzione razionalizzante. Il sovrapporsi di elementi in un collage tutto pittorico, dapprima per mediazione di un bordo bianco e poi senza, segna una raggiunta fiducia dell’artista nella possibilità del proprio linguaggio.
I personaggi restano immobili e riflessivi, a conferma che il quadro non è azione ma coscienza di un tempo avvenuto, immodificabile come il destino dopo la sua realizzazione. I simboli, ovunque galleggianti (ossa, pennelli, ganci, bottiglie e altro), sono piccoli leitmotiv che, per forza di ripetizione, esprimono i sentimenti più profondi e radicati nell’io; potremmo definirle le nostre costanti. La trasparenza dei corpi, entro cui sovente si aprono varchi abitati da ombre, si danno come scrigni dell’inenarrabile, di quanto ancora teniamo dentro, perché troppo prezioso o troppo pericoloso.
Infine, i bambini – a volte protagonisti, più spesso osservatori periferici – appaiono il corrispettivo di una libertà: quella di guardare alla vita e a sé con pura meraviglia. E forse risiede proprio in tale punto la grande tentazione dell’artista: fare della propria memoria non un incastro di necessità mentali, ma la materia di un bellissimo sogno.