Le opere allestite
negli spazi del Pecci si presentano come espressioni di un’identità brasiliana
scevra da ogni stereotipo addottole dalla cultura europea, in contatto con la propria
immagine originaria. L’esposizione prende ispirazione da Brasilia, una delle
più grandi utopie concepite dall’uomo, “
posto senza luogo che ha visto una
élite diventare un centro di potere reale”. L’ultimo progetto a essa legato dell’architetto
Oscar
Niemeyer costituisce qui contemporaneamente il punto di partenza e il suo stesso
superamento.
Le opere esposte
rappresentano un’unità spazio-temporale finalmente svincolata dalla precedente
utopia modernista. È un’estetica che rivendica l’affermazione di utopie
particolari, attraverso l’operare artistico che è un comunicare universale.
Artefici di questo processo sono, fra gli altri,
Waltercio Caldas,
Cildo Meireles e
Laura Vinci. Con
After Utopia, per utilizzare le parole del curatore
Atto Belloli
Ardessi,
“si vuole superare l’usura strategica di un significato, per
indicare la precisa possibilità visionaria dello scenario contemporaneo
dell’arte brasiliana”.Vige una
supremazia formale nelle ricerche degli artisti presentati. Si assiste a
diversi approcci e tentativi di plasmare la realtà attraverso un processo
speculativo in cui il sogno di un miglioramento delle condizioni sociali
generali forgia costantemente lo sviluppo dell’immaginario. Legno, mattoni,
metallo: sono questi i materiali che prevalgono in questo farsi spazio di
un’identità estetica di un Brasile che non può esimersi da quell’esigenza di
fondo, matrice dei suoi sogni futuri e passati, che sfocia nel termine di una
necessità utopica.
Ak 47 (2009) di
André Komatsu, una struttura in mattoni che si
erge fino a sfiorare il soffitto, è presenza e accenno di un mondo in cui sia
possibile gettare le fondamenta per la propria sicurezza. Opera, quest’ultima,
che costituisce un’ipotetica risposta a
Nas Quebradas (1979) di
Hélio Oiticica, che conduce “su per le stradine”
di una favela in un sentiero di sassi in cui lo spettatore scivola e affonda,
già testimone di una realtà in corso che anela al proprio superamento.
Le Sale Biblioteca ospitano invece
una selezione delle fotografie di
Piergiorgio Branzi (Firenze, 1928) dagli anni ‘50 a
oggi. L’artista si avvicina alla fotografia –
“idea proiettata sulla carta”, come lui stesso la definisce –
dopo aver visto a Firenze nel 1953 una mostra di
Henri Cartier-Bresson. L’esperienza giornalistica da
inviato lo ha portato nel corso degli anni ‘60 prima in Russia, poi a Parigi,
dove continua a sentirsi
“un vampiro in una macelleria”, continuando la sua ricerca
sull’immagine. Branzi inizia poi a viaggiare per il mondo per produrre nuove
idee stampate.
Se i primi lavori si
caratterizzano per l’eleganza di una forma che ricerca l’equilibrio tra il
rispetto della tradizione e il suo possibile superamento, le ultime opere si
aprono al gioco caleidoscopico della visione, allontanandosi dalla composizione
del quadro. Per indagare nel dettaglio l’oggetto/mondo/paesaggio.