Alla sua seconda esposizione
personale in Italia (la prima è stata ospitata a Villa Medici, a Roma, la
scorsa primavera), il fotografo egiziano
Youssef Nabil (Il Cairo, 1972; vive a New York)
presenta oltre 35 lavori, dai primi anni ‘90 a oggi.
L’opera di grandi dimensioni
Self-Portrait
with Botticelli (2009)
è stata
realizzata all’interno della Galleria degli Uffizi, appositamente per
quest’esposizione. Come ha dichiarato l’artista:
“La ‘Primavera’ di
Botticelli è stata la prima opera che ho visto in vita mia, poiché ne avevo un
poster che la riproduceva appeso in camera. Ho sempre desiderato dormire di
fronte a quella originale”.
L’interesse del fotografo per le
immagini nasce sin dall’infanzia, grazie ai film egiziani. Ancora bambino,
scopre che alcuni dei suoi attori favoriti se ne sono già andati e questo fa sì
che nasca il desiderio di “immortalare” i protagonisti viventi che amava nel
panorama artistico del mondo arabo e occidentale.
Questa passione per il cinema
diviene traccia costante nelle sue opere, stampe in bianco e nero alla gelatina
d’argento colorate a mano con l’acquerello, che richiamano l’estetica dei
vecchi film in technicolor e dei manifesti cinematografici.
Nabil comincia così la sua
carriera, “mettendo in scena” i suoi amici nelle vesti delle star
cinematografiche d’un tempo. La sua formazione prosegue prima al fianco di
David
LaChapelle a New
York, in seguito a Parigi con
Mario Testino.
Nei ritratti che realizza,
l’artista egiziano mitizza
en avance i propri soggetti. Una mitopoiesi che avvolge di
nostalgia personaggi come
Zaha Hadid,
Mona Hatoum,
Tracey Emin e
Gilbert & George. Il glamour acquista così le
tonalità e il fascino di un malinconico presente già appartenente al passato.
Come ha sottolineato Pier Luigi
Tazzi,
“questa ‘mise-en-distance’ è dovuta soprattutto a quelle sue
tinteggiature manuali e maniacali, che si rifanno a tecniche antiche e
decisamente obsolete. Come se il mondo a cui guarda, che continua ad
affascinarlo e che infine rappresenta, non fosse altro che il ricordo di un
mondo che è già stato e di cui lui, come artista, con la propria opera,
celebrasse l’inesorabile esser trascorso”.Nella sua ricerca, Nabil non può
esulare dall’esperienza della vita e della morte. Tale senso di perdita è
d’altronde peculiare del mezzo fotografico, in quanto – per usare le parole di
Roland Barthes – ciò che vedo è
“il reale allo stato passato: è il passato e
il reale insieme”.
Un reale alterato dall’atto creativo, che ratifica ciò che
è stato.
Ciò emerge maggiormente negli autoritratti,
che Nabil ha iniziato a realizzare dopo aver lasciato l’Egitto. Qui il
paesaggio risponde sia alla riflessione sull’essere in loco dell’artista, sia,
tramite il colore, all’immaginario del luogo che già possiede: Parigi,
Hollywood, sale cinematografiche, camere d’albergo. Un essere cosmopolita e
apolide al contempo.
Nabil percepisce la propria vita
come una proiezione cinematografica, nella quale interviene per trasformare in
tracce consapevoli frammenti di un tempo irrecuperabile. Una narrazione che
risponde a una domanda di senso, celebrandone la stessa mancanza e limitandosi
a testimoniare la contingenza della sua presenza.
Queste immagini, proprio nel
dichiarare la consapevolezza della perdita che ci accompagna,
resistono. A giorni di distanza dalla loro
visione, ritornano. Inebriano e interrogano.