Marco Di Giovanni (Teramo, 1976) ci dà le spalle. È in piedi su una base cilindrica di colore bianco. La testa infilata in un tubo metallico conficcato nella parete. Indossa la sua felpa blu da lavoro. Stinta e sdrucita. Il cappuccio è avvitato all’estremità della tubazione.
Va in scena, per due ore filate, un viaggio claustrofobico e massacrante verso l’oltre. Un viaggio per un punto di vista altro, verso una rappresentazione della realtà diversa. Una via di fuga dall’ambiente circostante. Uno sfondamento del qui ed ora che è mutare il proprio orientamento. Cambiare le lenti attraverso cui vedere il mondo. O perlomeno capire che esistevano.
Poco più in là, appena abbandonati, un paio di sandali consumati, veri. Reali testimoni del viaggio. Sono sfondati, i plantari e la suola sono stati asportati e svelano una sottostante superficie luminosa. È gialla, di un giallo caldo. Una superficie disomogenea che lascia intravedere una texture che percepiamo essere in movimento.
La base cilindrica dell’installazione cela infatti un sistema di lenti cosparse di sabbia ed illuminate dal sotto. Un espediente che restituisce dinamismo -la sensazione del viaggio-, un moto circolare che ricorda la rotazione terrestre e che allo sguardo genera sorpresa.
Sulla parete di sinistra, nel medesimo ambiente, il diario del Di Giovanni УКРАЇНИ (d’Ucraina). Dodici pezzi di carta gialla, quella assorbente, da osteria, con su altrettante scene conviviali, appena tratteggiate al carboncino. Scene di relazione, di confronto con l’altro. Di conversazioni al bar e di bevute in compagnia.
Sulla parete di destra va in scena invece il racconto. Otto pagine strappate da un libro comprato per bancarelle: le poesie di Ševčenko. Il padre della moderna letteratura ucraina, lo sguardo altro nell’Ucraina zarista di metà Ottocento. Otto pagine illustrate a tema agreste su cui Di Giovanni interviene tracciando le “sue” tubazioni, i suoi serbatoi, i suoi ferri. Scene di fatica e di sudore su cui si innestano esperienze, ovvero tubi, a-normali.
Canalizzazioni che sfondano la cornice di senso e ribaltano le regole dell’esperire.
Ma allora non abbiamo semplicemente raggiunto l’Ucraina. Ci siamo spinti ben oltre. E abbiamo occhi nuovi.
damiano meola
mostra visitata il 25 novembre 2006
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