Per comprendere (e apprezzare) la tipologia delle opere in mostra si pone come necessaria una deviazione di fronte al percorso di fruizione di un’arte cosiddetta dell’oggetto. Non voglio / vendere oggetti / Voglio / vendere me stesso.
In base alla convenzione linguistica che regola la sineddoche, in queste parole sta racchiuso il messaggio delle avanguardie, o per meglio dire delle Neo-avanguardie, di cui la collezione in mostra è orgogliosa detentrice. Non è importante a questo punto la componente autoriale del testo appena riportato, visti gli sforzi operati fin dalle cosiddette Avanguardie Storiche e poi via via da Lettrismo, Situazionismo, Poesia Visiva e Fluxus nel far sì che la logica di gruppo fagocitasse l’espressione del singolo, ingorda di inutili personalismi, a favore di un creative commons ante litteram.
Ben più importante risulta il legame -neanche troppo forzato- con il meglio noto slogan, passato di bocca in bocca (e di manifesto in manifesto) da quel fatidico 1909 ad oggi: Arte=Vita. Ed è la vita che urla gloriosa, e si estende in tutti gli angoli delle sale, irradiata, sempre uguale sempre diversa, da un piccolo apparecchio televisivo incastonato in un voluminoso blocco di cemento (Wolf Vostell, La revoluzione de la televisione n. 4).
Nell’impossibilità di enumerare le centinaia di opere esposte, alle quali si lega un evidente “fardello” di concettualismo, procederemo per cammei, che nella logica dell’uno per -al posto di- tutti, faranno da traccia di una poetica corale.
Le ultime battute di quell’oggetto materiale, detronizzato in incipit, sono ravvisabili nelle esperienze del Nouveau Realisme. Fedele erede delle sperimentazioni accumulative e assemblative di Dada, Arman salda tra loro alcune tube; così facendo lo strumento musicale perde la sua significazione ordinaria e l’artista, conscio della lezione duchampiana, opta per un complesso groviglio di plasticità scultorea.
Di straniamento si tratta e che cosa è più straniante dei collage da riviste, giornali e pubblicità messi in opera dai poeti visivi? In questo modo infatti i vari Pignotti, Tola, Miccini, Balestrini si divertivano a creare nuove vie di lettura per l’informazione mediatica continua ed avvolgente, secondo lo schema casuale dettato proprio in seno al Dadaismo zurighese quasi cinquant’anni prima. La stampa, le “cose” di tutti i giorni, il flusso inarrestabile della vita che sbaraglia il vetusto circuito artistico.
Nel piccolo museo di Ben Vautier compaiono lamette da barba e contenitori; alle pareti le tavole imbandite e “già mangiate” di Daniel Spoerri sostituiscono i quadri. Persino le azioni, i gesti, iscritti in innocui cartoncini, diventano arte (o lo erano già?) se George Brecht vi appone la propria firma. Un tripudio di energia, insomma, che speriamo aiuti la rifondazione pratese seguendo l’incitamento verbo-cromatico del conterraneo Giuseppe Chiari.
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caro Musso, spiace che tu ignori il liet motiv che accompagna l'ennesima marchetta di un museo in crisi. una mostra non è solo un pacthwork di opere, ma un progetto di intervento culturale in un ambito territoriale...
questa invece è un'ennesima marchetta al potente di turno per tirare a campare, senza un progetto, senza un curatore vero, senza una linea culturale dell'istituzione...
spiace vedere una tale entropia
Forse ogni tanto è necessario concentrarsi sulla mostra, invece che "politicizzare" aprioristicamente... spiace vedere tanta anonimia della calunnia