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L’incontro da una lezione sull’incontro” è una delle massime che accompagnano il visitatore a ogni stazione di un viaggio nell’esperienza e nel ricordo. Un allestimento di rigorosa apparente casualità quello di
George Adéagbo (Cotonou, 1942), omaggio a una città intrisa d’arte e d’umana forma, un’ispezione tesa alla modalità di percezione e sentimento dell’uomo che viaggia, scopre, fa esperienza delle cose, un incontro che ne racchiude svariati.
Quest’incontro avviene in una maniera particolare grazie all’ordine degli oggetti-opere che sembrano fondersi e quasi mimetizzarsi per poi, a tratti, spiccare tra gli affreschi, gli arazzi, la mobilia, opere del
Vasari e del
Verrocchio. La collezione di un turista giramondo, di uno studente nostalgico, di un melomane eterogeneo, di uno studioso attento, di una massaia. Una sorprendente raccolta di frammenti di vita, il cui filo conduttore è l’incontro nelle molteplici accezioni del termine. Angoli di letture sociologiche e filosofiche in lingua originale poggiate su una sedia e su uno dei più grandi mappamondi antichi con la stessa disinvoltura.
Nello spazio di Frittelli le installazioni dominano la scena, nelle sale di Palazzo Vecchio s’intrecciano, occupano gli angoli nascosti, accompagnati da piccoli pensieri di china in italiano e francese sul tema dell’incontro.
Articoli di giornale, tappi di sughero, ritagli di stoffa, fiammiferi, intrappolati sotto vetro come gioielli preziosi, che trovano il proprio valore non nei materiali ma nelle valenze che l’occhio del visitatore, senza limiti interpretativi, riesce a donargli. Bottiglie vuote accostate a sculture lignee di fattura africana, maschere solenni e corpi guerreggianti o di apotropaica floridità.
Interessanti le piccole tele provenienti dal Benin, tripudio di colore e forme tondeggianti dal tratto fanciullesco. Un artista che non realizza personalmente, ma fa delle opere altrui la propria forma stilistica, come fossero manufatti da riplasmare e ripensare concettualmente.
Il punto di arrivo di un percorso di congiunzione tra Venezia, nella quale l’artista fu chiamato a reinterpretare la morfologia del museo della Fondazione Querini Stampalia, e Firenze, che ne aveva già ospitato le opere nel 2000. Il culmine di un’ideale linea di congiunzione tra due città profondamente significative per l’arte in genere e per l’esperienza personale di Adéagbo.
Suggestiva la scelta di allestire in un monumento pubblico denso di storia e nello spazio incontaminato della galleria, quasi a dimostrazione che il passaggio per il cuore delle forme può realizzarsi attraverso la totale libertà di organizzazione, ma anche inserirsi nella storia e nella
res publica, arte nell’arte e piacevole divagazione percettiva.
Un allestimento che bisognerebbe fruire dalla distanza, per poterlo contenere nella sensazione di magnificenza delle stanze di Palazzo della Signoria, per poi focalizzare lo sguardo su ogni minimo dettaglio col rigore di una lente d’ingrandimento.