La combinazione progettuale
abito vs habitat e
FF-MM, a opera di
Flavio Favelli (Firenze, 1967; vive a Savignano, Forlì) e
Muna Mussie (Keren, 1978; vive a Bologna), trae vigore dalla struttura dialettica di tesi, antitesi e sintesi. Ovvero: i valori opposti di transitorietà e permanenza insiti nell’idea confluiscono e si risolvono nel superiore sistema della memoria.
L’esposizione consiste infatti in un suggestivo scenario di antichi armadi e dondoli convertiti ad hoc, disposti in punti del museo apparentemente casuali, a mostrare collezioni d’abiti nuovi. Attraverso una simbologia evidente del ricordo, il mobilio evoca concetti afferenti quali archivio, passato, avi, intimità. I capi di vestiario, invece, riconducono senza indugio all’attualità. La risoluzione del conflitto fra termini avviene, appunto, attraverso l’atto dell’acquisizione: conservare in un luogo una qualsiasi cosa, soprattutto ciò che per una società consumistica dovrebbe durare una sola stagione, significa già attribuirgli un valore perenne.
Il procedimento messo in atto però si spinge anche oltre, e gli artisti intensificano la dialogica fra estremi sino a generare sensi sottilmente ambigui. I
nnanzitutto perché i materiali di partenza, ossia camicie, magliette, giacche, cappelli – non gli arredamenti, derivati della foga accumulatrice di Favelli – sono prodotti da aziende storiche del mercato: Borsalino, Canclini e Collina. E poi perché la finalità ultima del progetto, la cui data d’inaugurazione ha coinciso con quella di
Pitti Immagine, è trasformare
FF-MM in un marchio vero e proprio.
Parrebbe dunque di riscontrare una ulteriore contraddizione oltre a quella di partenza: da una parte il concetto di
moda risalente a Baudelaire, che la intese come conseguenza del lusso e insieme causa del feticismo delle merci; dall’altra la volontà di entrare a pieno titolo e se possibile con successo nelle dinamiche dei consumi. Quindi? Quindi, a questo secondo livello è il gioco – da intendersi non come mancanza di serietà ma come massima libertà possibile – a vincere.
Perché quando i due artisti creano la propria
griffe, sperimentano ogni tecnica disponibile. Un colpo di pennello sulla manica è pittura. Una camicia smembrata e ricomposta sul piano è collage. Riferimenti storici sul taschino – da Itavia alla targa di una delle auto di scorta del magistrato Falcone – sono richiami al concettuale. Piccoli fori di bruciatura sulle camicie – forse una sigaretta, forse l’insistenza di un raggio solare – riportano diretti alla poetica dell’oggetto.
Ciò significa che il fine reale della mostra è la vertigine: immaginare per un istante l’accordo musicale d’identità e indistinzione; immaginare che il contrasto fra arte, artigianato e produzione industriale possa stemperarsi, infine, in una pacifica convivenza.
Allora non sarebbe casuale l’apertura della mostra con una vetrina contenente alcune cuffie dall’archivio Borsalino e strane conchiglie: riferimento alla curiosità collezionista della Wunderkammer, risalente a un periodo in cui ancora non si era consumata la scissione fra arte e scienza.