Selezionando 100 opere, i curatori di
Uno sguardo
nell’invisibile provano a costituire in percorso il principio e le conseguenze dell’enigma
firmato
Giorgio de Chirico:
ovvero la celebre stasi extra-temporale che rivela – nella fissità dei corpi e
nelle partenze lontane, nella luce cadente del pomeriggio e nelle ombre lunghe
per terra – l’assenza di senso del mondo.
Chi sono questi uomini simili a statue classiche e
manichini? Perché la nave e il treno, indici esclusivi di movimento, rimangono
irraggiungibili oltre la barriera dei muri? Cosa accade, o meglio, può nella
realtà non accadere niente? Certo, la mostra fiorentina non si propone di
trovare risposta a tali domande, ma cerca più realisticamente di stabilire che
cosa abbia davvero significato, allora e in seguito, l’invenzione della
metafisica, un
modus classico e sconvolgente insieme, capace di generare opere che per
rigore e qualità, pur con evidente scetticismo verso il progresso, s’ersero fra
i tumulti d’avanguardia.
La linea seguita dall’esposizione inizia, oltre al
canonico riferimento alla filosofia di Friedrich Nietzsche, con l’intuizione
scaturita nel giovane de Chirico dalla visione di una piazza Santa Croce
autunnale e plumbea, evento, quest’ultimo che nei propositi giustifica la
scelta specifica del capoluogo toscano. Da tale punto viene sviluppato un
tracciato alternato da alti e da bassi, perciò definibile, nonostante la
qualità di vari elementi, generalmente squilibrato.
Innanzitutto l’idea di base; lo scotto per un tema tanto
affascinante è il rischio dell’arbitrarietà nella sua elaborazione, l’unico
modo per controllare l’inevitabile deriva sarebbe stato d’allargare il numero
degli autori coinvolti (la decina di pittori selezionati, nonostante il numero
consegua a una precisa scelta curatoriale, risulta comunque insufficiente).
Anche nelle divisioni specifiche il criterio appare discutibile: sovrabbondanza
per
Max Ernst,
ristrettezza per
Magritte e scarsità per
Balthus.
La decisione di soprassedere sui modelli stilistici a cui
s’ispirò il cosmopolita pittore – chi, davvero, oltre a
Bocklin? – si rivela un’ulteriore
occasione perduta di bilanciamento. Esaurienti sebbene contenuti, per
un’affinità più diretta con il
pictor optimus, i riferimenti a
Carlo Carrà e
Giorgio Morandi. Prezioso, tanto da rappresentare
il segmento più riuscito della mostra, l’accostamento con il realismo magico di
Niklaus Stoecklin e
Pierre Roy;
a riprova che un’inclusione più vasta e meglio distribuita avrebbe reso del
tutto convincente l’operazione.
D’altro canto, può darsi che il problema di una completa
riuscita sia alla radice. Perché, per la costituzione stessa dello specifico
artistico in analisi, forse una mappatura della metafisica dovrebbe tener
conto, più che delle scelte formali degli artisti, dell’indefinibile atmosfera
che pervade il quadro e che da esso si effonde. Se così fosse, entrando in una
sfera di forte soggettività, ritroveremmo l’influsso dell’invenzione entro un
raggio tanto ampio quanto la discrezionalità dell’osservatore: insomma, un
altro splendido enigma.
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Il primo dipinto è di Balthus,buon giorno a tutti
Come già hanno fatto notare, il primo dipinto è di Balthus...
La mostra, purchè interessante, mi è sembrata il solito specchietto per le allodole. Nomi altisonanti sulle locandine e poca sostanza nei fatti. Come al solito ci si aspettavano grandi opere, famose,universalmente conosciute ed invece i soliti fondi di magazzino.