Mentre le polemiche sull’
architecture beyond building della Biennale mostrano l’attualità della tensione cruciale tra edificio-oggetto e relazioni-flussi nello spazio urbano e sociale, la bella retrospettiva su
Gordon Matta-Clark (New York, 1943-1978) rivela la fecondità e la lungimiranza di un artista che ha posto questa medesima tensione al centro della propria ricerca estetica.
Architetto di formazione, Matta-Clark è noto soprattutto per i “tagli” inferti a edifici pubblici e privati. Ma la mostra senese ha il merito di preparare la comprensione di queste opere più note attraverso una serie di lavori e di preziosi documenti relativi ai primissimi anni ‘70. Già le polaroid fritte in padella e spedite agli amici (
Photo fry, 1969), come anche
Food (1971) – il ristorante gestito insieme a un gruppo di artisti newyorkesi e documentato da video, foto, lettere – fanno emergere alcuni nuclei del lavoro di Matta-Clark: da una parte, l’interesse per i processi di trasformazione entropica della materia, per il modo in cui i materiali, la pellicola, gli impasti reagiscono e mutano attraversando i limiti tra supporti, spazi e linguaggi; dall’altra, il costante reinserimento di questa ricerca in reti di relazioni sociali che, come il libero spazio di aggregazione e autogestione di
Food, sono luoghi di libertà e sperimentazione.
Nessun lavoro di Matta-Clark può essere scisso da questa dimensione critica, che emerge con forza negli interventi legati alla dimensione dell’abitare. Tra il ‘73 e il ‘74 l’artista compra a Manhattan una serie di lotti minuscoli o inaccessibili, luoghi dell’infunzionale, capaci di rivelare i paradossi del mercato immobiliare laddove la proprietà è scissa dall’abitare reale (
Reality Properties: Fake Estates). E allora, nei progetti, appunti e schizzi disseminati nelle sale si vede germogliare di anno in anno una progettualità interstiziale che si volge ai luoghi liminali e ancora liberi: il modulo di spazzatura e cemento per homeless (
Garbage wall), i bellissimi disegni che intrecciano i rami degli alberi a formare una città altra e sospesa, le strutture aeree di funi e reti in cui prende forma il sogno di un abitare comunitario e rizomatico sottratto alla feroce divisione e funzionalizzazione delle relazioni urbane (
Treedance).
Saranno, infine, gli edifici stessi a ricevere un’intrusione che, attraversandoli, li disvela. Il taglio che spacca verticalmente la struttura della casetta bianca suburbana nel New Jersey (
Splitting, 1974) non è mera decostruzione, ma “taglio vitale” produttivo che mostra, minandoli, i dispositivi del sistema abitativo molecolare: la gerarchia fra le stanze e fra i piani, la rigida distinzione funzionale degli spazi, le soglie che sanciscono il poter e il non poter fare. Un invito ad aprire la casa-monade, ad abitare “
an exquisitely uncomfortable space“, aperto al contatto con l’altro e in cui sia possibile sentirsi interi.