Capita che, nella biblica attesa di un centro per l’arte contemporanea a Firenze, siano gli Uffizi a rilanciare a livello istituzionale l’attenzione per il contemporaneo. Capita che il Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi acquisisca alcune opere di
Omar Galliani (Montecchio Emilia, 1954; vive a Montecchio e Urbino): un trittico, due disegni a matita su carta e altri quarantacinque disegni, di dimensioni più piccole, a matita e inchiostro di china, tutte in esposizione nella sala Edoardo Detti del Gabinetto.
È il trittico
Notturno (2007), un’opera monumentale che si compone di tre tavole di legno di pino, a offrire il nome all’evento. Sulle tre tavole, poste verticalmente le due laterali e orizzontalmente la centrale, Galliani è intervenuto con la carta vetrata,
rivestendole poi di un’avvolgente e profonda trama di segni a grafite, il cui strato s’ispessisce a volte per far emergere alcuni elementi, o si dirada per lasciare spazio ad altri, rendendo visibile il colore del legno sottostante. Una cascata di rose a sinistra e di teschi a destra e, nel mezzo, un pianoforte.
Fiori, teschi e strumenti musicali: è difficile resistere alla tentazione di richiamarsi alla tradizione della
vanitas (e tale definisce quest’opera anche la direttrice Marzia Faietti). Tanto più difficile se l’artista in questione è stato legato a quello che, negli anni ‘80, era chiamato Anacronismo: recupero fantasmatico di un passato sentito non come storia ma come labile e inconsistente presenza. Se la rosa era, nella
vanitas intesa come genere, il richiamo alla fugacità dei piaceri e dei sensi dell’uomo e il teschio l’indicatore di un tempo irrimediabilmente trascorso, lo strumento musicale viveva della bivalente allusione alla vita attiva e alle sue momentanee occupazioni da una parte, e alla possibilità di sopravvivenza delle arti dall’altra.
La
vanitas di Galliani sembra però trasformarsi nel suo opposto, nell’evocazione di un’eternità impalpabile, nascosta sotto la fitta tessitura creata dalla grafite. È un’eternità siderale, in cui le rose e i teschi si muovono con l’eleganza e la sicurezza di pianeti nello spazio, intorno a cui i segni lasciati dalla carta vetrata, visibili attraverso la grafite, disegnano orbite distorte e irregolari. Le rose e i teschi danzano (una danza che non sembra possibile definire macabra) al suono forse della musica delle sfere: al centro il pianoforte, sagoma nera e imponente, assume il valore di un’apparizione salvifica per quanto oscura.
Se
Mantra (1999) e
Nuovi Santi (2007) hanno al centro volti di donna immersi in una lontananza irraggiungibile (nel primo è lo stesso volto a sdoppiarsi per separarsi da se stesso), i quarantacinque disegni a matita e inchiostro di china di vari colori sono una serie di incontri, di contatti tra ossa sfumate a matita e fiori disegnati a china, taglienti come ghiaccio. Incontri da cui, come una scintilla, sembra sprigionarsi una improvvisa armonia.