Passato e presente si intersecano e si confondono in questa mostra dai confini sfumati. Si dileguano nella pluralità dei messaggi nonché nella dinamica dei processi creativi. Angelo Barone ed Elisabeth Scherffig esplorano e leggono il paesaggio urbano con le differenze che caratterizzano la loro percezione artistica, ma pongono entrambi le premesse per una fruizione delle opere che invoca concetti comuni ed essenziali: l’interesse per l’architettura, il rapporto passato/presente, la solitudine e la distruttività come essenza imprescindibile nell’atto stesso di creatività.
Per Angelo Barone la relazione di affinità e, nello stesso tempo, di contrasto passa attraverso la nitidezza della fotografia e l’intervento di opacizzazione della stessa come base del processo creativo. L’artista lavora con immagini di edifici stralciandone scorci efficaci e dissimula il soggetto con velature lasciando all’osservatore il piacere della scoperta e il beneficio del dubbio. Sono prospettive inconsuete, come in Circolare, 2001, o bagliori su particolari di per sé insignificanti, o interni abitati soltanto da luce, che esprimono in tutta la loro desolante assenza vitale lo svuotamento di identità. Icone vuote, appunto, dove la solitudine regna sovrana ed esalta le strutture architettoniche. Disarticolando dalla realtà alcune parti non perde la complessità originaria ma gioca con la trasparenza per indicarci la dinamica relazionale passato/presente. Le opere di Barone non esprimono pacificazione, piuttosto un intervento razionale di adeguamento. La velatura smarrisce i contorni, opacizza la visuale e intuitivamente distrugge la realtà. L’autore sembra tarpare
Le opere di Elisabeth Scherffig scavano nel sottosuolo per portare alla luce architetture distrutte e dimenticate. Sassi, travi, cannucciati, un tempo strutture di lavoro o abitative sepolte da altri edifici. La sua visione è di curiosità; va a cercare il particolare, sembra voler ricostruire le viscere della società. Eppure il suo guardare al passato non nasconde turbamento o rimpianto, è piuttosto una presa di coscienza tranquilla del celato, del latente sotto e dentro di noi. L’artista riproduce con perizia maniacale, a piccoli tratti di pastello, particolari spesso difficili da percepire. Anch’essa scompone l’immagine e scompone la linea che mai è continua, ma ricostruisce quasi per incanto la complessità dell’ambiente in tutte le sue parti. La sua mano felice e l’interesse dei suoi soggetti si apprezzano maggiormente nelle grandi carte piuttosto che nelle opere di piccole dimensioni.
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daniela cresti
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