La metafora di Alessandro Amaducci creata per descrivere i tre media cinema, video e immagine elettronica appare molto concreta per interpretare il percorso espositivo della mostra
Worlds on Video, allestita al Cccs per la cura di Anita Beckers. Il teorico torinese paragona i tre mezzi d’espressione a simboli: la linea, la spirale e la sfera. Il cinema, che si realizza attraverso una successione di frame fotografici su pellicola, determinando la nozione di campo e fuori-campo, si avvicina quasi automaticamente al concetto di origine e termine, dando percezione di linearità.
Cinema come linea, ma più appropriata in questo contesto sembra la dicitura di “cinema espanso” forgiata dal teorico Gene Youngblood, che si palesa negli incidenti semantici di
Candice Breitz, la quale in
Soliloqui (Clint) spezza il montaggio originale di film hollywoodiani come
Basic Instinct o la serie con l’ispettore Callagan. All’interno del video la narrazione perde la propria funzione e gli attori che si esprimono verbalmente sono montati in un soliloquio, che cela allo spettatore sempre qualcosa.
Vengono nascosti elementi importanti per la comprensione della storia anche nel giallo
Dark Messages raccontato da
Domenico Mangano, all’interno del quale ogni attesa dello spettatore non viene soddisfatta, cosa che accade pure all’interno del viaggio fra le strade tortuose di montagna di tre giovani ragazzi, intitolato
Teenage Lightning e messo in video da
Zimmerfrei.
Attraverso la figura della spirale, invece, Amaducci determina una metafora con il video, elemento che rivoluziona l’idea di temporalità, dato che la tecnologia che usa consente riprese illimitate. Queste potenzialità si verificano in opere come
Stromboli di
Marina Abramovic, dove la performer distesa sulla battigia si lascia andare al flusso delle onde, dovuto ai movimenti tettonici dell’isola dal vulcano ancora attivo, così che il suo corpo possa entrare in connessione con la natura selvaggia e primordiale, tanto da perderne il controllo. L’unione tra video e corpo, ponendo attenzione a una ricerca sull’individuo visto come massa plasmabile, si manifesta anche nella messa in scena dal titolo
Sweet Nightingale di
Victor Alimpiev: un gruppo di persone, sulle note della Quinta sinfonia di Gustav Mahler, compie gesti all’unisono che, nella comunicazione sociale, sono solitamente interpretati come segni d’insicurezza.
L’ultima forma che Amaducci utilizza per terminare la sua metafora è la sfera, alla quale paragona l’immagine digitale o di sintesi, capace di realizzare uno spazio infinito che, grazie alla codificazione numerica dei segnali, conferisce piena libertà all’autore. Come si nota nel lavoro di
Philippe Grammaticopoulos, dal titolo
Le Régulater, dove in un mondo avveniristico una giovane coppia soddisfa la propria volontà di potersi costruire un figlio perfetto (che al termine dell’opera così perfetto non sarà) grazie all’aiuto di una fabbrica di bambini.
Interessante anche l’attenzione riposta da parte della curatrice ai video d’animazione come
It’s all about painting di
Nathalie Djurberg, che racconta del massacro da parte di lupi in tuta mimetica di un allegro mercato rionale. L’artista svedese continua a stupire gli spettatori proponendo ancora una volta scene violente e brutali, ribaltando i principi basilari su cui si fonda l’etica e la morale della società attuale.
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mostra molto vaga e che non apporta nulla da un punto di vista scientifico, per di più curata da una gallerista... se un nuovo spazio non sa darsi un minimo di scheletro progettuale...